La cosiddetta legge sullo ius soli, in discussione alla Camera, ha generato, come era prevedibile, accese polemiche non sempre, anzi quasi mai, basate su fatti reali. Che la strumentalizzazione sia sempre dietro l’angolo nella politica italiana, è un dato tanto evidente che forse non conviene perderci troppo tempo. Anche perché essa non è propria di una sola parte politica.
Conviene, piuttosto, andare dritti alla questione in discussione. Che essa sia stata posta proprio in questo momento, potrebbe essere non sbagliato, considerato che, di fronte al numero sempre più alto di coloro che arrivano nel nostro Paese, dobbiamo chiederci non solo se possiamo degnamente ospitarli ma anche chi sono loro e chi siamo noi.
Porre la questione in modo astratto, secondo i dettami di un universalismo illuministico che come ci ha insegnato Isaiah Berlin non è propriamente liberale, è non solo sbagliato ma anche pericoloso.
L’ospitalità, l’apertura, è certamente un valore liberale, ma essa non può essere data a tutti indistintamente se vogliamo preservare i caratteri liberali della nostra civiltà. Ancora una volta, risulta confermato che il liberalismo non ė un insieme di procedure, secondo l’ideologia liberal (non liberale) dei Rawls e degli Habermas, né ha al proprio centro un individuo disincarnato, come vorrebbe l’ideologia cosmopolitica dei sostenitori di un (inquietante) “governo unico mondiale”.
Il liberalismo è piuttosto un valore forte, e anche a suo modo esclusivo ed escludente, in quanto, pur tollerando tutti, non tollera chi vuole servirsi di esso per annullarlo.
Proprio perché appartiene all’ambito dei valori, cioè etico, ha sicuramente torto il giurista tedesco Boeckoenferde quando afferma che la civiltà liberale si regge su presupposti che non può dimostrare. Ciò sarebbe vero solo nel caso il liberalismo si riducesse a procedura, ma è proprio ciò che qui si vuole negare.
La legge è certo fondamentale nella nostra civiltà, ma lo è perché si radica in una comunità di valori etici e storici che hanno trovato alla fine una adeguata espressione giuridica e politica. Non razzisticamente il sangue (ius sanguinos), né tantomeno il suolo (nel senso di essere nati qui), dovrebbe perciò essere la bussola per regolare la cittadinanza in Italia, in Europa e nell’intero Occidente.
Dovrebbe esserlo piuttosto l’aderenza vissuta e convinta ai valori laici e liberali della nostra civiltà. Tocca poi al legislatore e ai politici tradurre in legge e fatti concreti questo assunto. Chiarirsi un po’ le idee però male non fa, anzi sarebbe fondamentale.
Per passare al lato pratico della questione, perché non pensare a un meccanismo confermativo della cittadinanza, ora accordata dalla nuova legge a chiunque sia nato in Italia da un genitore ivi residente? Una conferma che dovrebbe avvenire nella maggiore età e dovrebbe essere accordata all’incrocio di due volontà.
Essa cioè dovrebbe corrispondere sia al desiderio di chi vuole possederla; sia al giudizio di una commissione valutatrice dell’effettiva integrazione di chi, pur essendo vissuto in Italia fino a quel momento, pure ha avuto dei genitori che provenivano da altre civiltà e da altri contesti storici (con i quali probabilmente hanno continuato a mantenere contatti).
Sentirsi italiani (europei, occidentali) ed essere giudicati degni di esserlo: questo il prerequisito sufficiente che si dovrebbe chiedere a ogni aspirante cittadino.
Corrado Ocone, formiche.net 18 giugno 2017