Il Kazakistan, un grande Paese turcofono senza sbocchi al mare, confina con la Cina a Est, con la Georgia a Ovest e a Nord con la Russia. Fa parte dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), il gruppo delle ex repubbliche sovietiche a guida russa che si contrappone all’Alleanza atlantica (Nato).
Ha formato con Bielorussia, Armenia, Kirghizistan e Russia l’Unione doganale eurasiatica e proprio al Cremlino, l’anno scorso, aveva chiesto aiuto per far fronte auna grave carenza energetica.
In questi giorni sempre la Russia ha inviato il suo esercito per far fronte ai disordini scaturiti dopo l’aumento dei costi dei combustibili – in particolare petrolio e Gpl – che di riflesso hanno portato alle stelle i prezzi dei beni di prima necessità.
A seguito degli scontri il presidente Tokaev ha dichiarato lo stato di emergenza, autorizzando l’uso della forza contro i manifestanti: ha ordinato di «sparare per uccidere» gli attivisti.
Per contenere le sommosse e ridurre le capacità di aggregazione, il governo ha inoltre oscurato Internet. I siti di social network sono stati bloccati, compreso Facebook, WhatsApp, Telegram e anche l’app cinese WeChat. Il blocco della Rete ha però disattivato il funzionamento delle macchine adibite alla blockchain, il sistema su cui si basa la moneta digitale.
Il Kazakistan infatti – oltre a essere ricco di petrolio, terre rare, metalli e uranio – è anche il secondo produttore mondiale di criptovalute. È appena dietro agli Stati Uniti nel mercato globale del bitcoin, con il 18,1% di tutto il mining mondiale.
Secondo il “Financial Times” sono quasi 90mila le società di cripto valute che si sono trasferite in questi anni in Kazakistan, attirate dai bassi costi dell’energia. Questo ha provocato un aumento della domanda energetica che ha messo in crisi la rete distributiva del Paese, provocando ripetuti black out e facendo salire i prezzi degli idrocarburi.
Il mining, cioè il processo di calcolo usato per creare nuove monete digitali e mantenere tutte le transazioni, richiede infatti una grande quantità di energia elettrica. Uno studio dell’Università di Cambridge ha calcolato che tutto il sistema delle criptovalute richiede il consumo di 121 terawattora l’anno, pari al fabbisogno energetico di nazioni come la Polonia o l’Argentina.
Sono questi i motivi per cui la Cina, il Kosovo, l’Iran e altri Paesi hanno sospeso le transazioni in bitcoin: era l’unico modo per evitare i continui black out energetici provocati dai mining.
Adesso anche i ‘minatori’ di criptovalute del Kazakistan, alcuni di loro immigrati di recente dalla vicina Cina, potrebbero spostarsi nuovamente per cercare Paesi che offrono migliori garanzie.
La questione energetica e le criptovalute sono però solo la punta dell’iceberg del malcontento popolare in Kazakistan. Questo è considerato un’autocrazia stabile grazie all’appoggio della Russia, ma si trova nel pieno di una profonda crisi politica che rischia di coinvolgere tutto il sistema delle ex repubbliche sovietiche.
Regioni in progressiva destabilizzazione come possiamo vedere dalle notizie che arrivano da Bielorussia, Ucraina, Azerbaijan, ecc. Per Putin la questione non è di facile soluzione.
Mantenere il potere militare ed economico dall’Ucraina al Kazakistan potrebbe non essere sostenibile a lungo tempo e in gioco non ci sono solo questioni energetiche e finanziarie, ma tutta la strategia geopolitica dell’alleanza Cisto.
Se questa crollasse potrebbe favorire una penetrazione della Nato che acquisirebbe l’Ucraina a Ovest, rischierebbe l’influenza islamico-jihadista a Sud e lo strapotere dalla Cina a Est.
E chissà che non sia proprio questo l’obiettivo dei nemici di Mosca. I Ministri degli Esteri del G7 hanno dichiarato congiuntamente che la Russia «minaccia l’ordine internazionale basato sul diritto».
Le contromisure da applicare per arginare il Cremlino potrebbero essere le più disparate, per questo motivo Putin tenta di dare la responsabilità degli avvenimenti ai servizi di intelligence stranieri.
di Massimiliano Fanni Canelles su La Ragione