La cattiva coscienza della nostra politica

La cattiva coscienza della nostra politica

I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi.

Ci sono due tipi di antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher). È quella che non vuole una politica impicciona, che ha per ideale — da perseguire benché non possa mai essere compiutamente realizzato — lo «Stato minimo», uno Stato che si occupi di fronteggiare emergenze e sfide alla sicurezza e di produrre pochi beni pubblici essenziali, lasciando il resto al mercato e al libero associazionismo volontario. Ma non è questa l’antipolitica oggi di moda. È di moda l’antipolitica finta, la quale convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre (non si propongono privatizzazioni e liberalizzazioni ma protezionismo e dosi ancor più massicce di statalismo). L’antipolitica oggi di moda è un ossimoro: è un’antipolitica statalista.

Cosa risponde la politica a questa antipolitica, cosa risponde quando l’antipolitica ripropone il mito del cittadino comune (o dell’Uomo qualunque) che sarebbe in grado di governare la cosa pubblica meglio — con più efficacia e con meno costi — dei politici di professione? La politica non sa cosa rispondere, balbetta frasi sconnesse. Non è capace per lo più di rintuzzare la sfida con argomenti seri in difesa di se stessa e delle proprie virtù.

Certamente l’antipolitica non nasce sotto un cavolo né senza ragioni. La ragione principale del suo successo è che, sfiancati da una lunga crisi economica, i cittadini non possono più tollerare le cattive abitudini, lo spreco di denaro pubblico, molti chiedono (e hanno ragione) una politica più sobria, meno disinvolta nell’impiego dei soldi dei contribuenti. Ma il lecito slitta nell’illecito quando, estremizzando, si abbracciano i peggiori argomenti affioranti dal passato, da un’antica tradizione antidemocratica e antiparlamentare.

Ci sono due tipi di antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher)

Si passa all’illecito quando si sostengono tre tesi, diverse ma collegate. La prima dice che i politici sono «cittadini come tutti gli altri». La seconda afferma che qualunque cittadino (come la «cuoca» di Lenin) è in grado di amministrare la cosa pubblica. La terza (ma qui gioca, oltre all’ideologia antidemocratica anche quella antiscientifica) sostiene che non solo una «competenza politica» specifica ma anche le altre competenze (si tratti di competenze amministrative o di saperi tecnico-scientifici), quelle che, in principio, servono a coadiuvare l’azione dei politici, non hanno valore: conta solo il volere del popolo, e il volere è potere, non esistono vincoli od ostacoli (finanziari, tecnici) che rendano indispensabile il ricorso alle competenze. Basta volerlo e, ad esempio, si può dare il salario minimo a tutti riducendo contemporaneamente le tasse o distribuire benessere e fare a meno della libera circolazione delle merci.

Quanto alla prima tesi, chiunque affermi che i politici, anche quelli eletti, siano «cittadini come tutti gli altri» ha urgente bisogno di qualche lezione di educazione civica. I politici eletti non lo sono affatto. I cittadini comuni rappresentano solo se stessi. Quei politici rappresentano i loro elettori. C’è in gioco il delicatissimo rapporto di rappresentanza (l’essenza della democrazia moderna) il quale rende il politico eletto diverso dal cittadino comune. La tesi «il politico è un cittadino come tutti gli altri» nega valore alla democrazia rappresentativa. Deve essere rintuzzata da chiunque la apprezzi pensando che essa, pur con i suoi limiti, sia l’unica possibile democrazia. È il rapporto di rappresentanza che rende necessarie quelle guarentigie (inaccettabili «privilegi» per gli esponenti dell’antipolitica), che vanno dall’immunità parlamentare (del tempo che fu) alla disponibilità di risorse economiche necessarie a svolgere i compiti di rappresentanza.

Anche la seconda tesi non sta in piedi. Non è vero che chiunque possa improvvisarsi politico e magari amministrare la cosa pubblica ai massimi livelli. Fatta eccezione per pochissimi particolarmente dotati, ai più alti livelli conviene arrivare dopo una lunga gavetta politica. In Italia, un tempo erano i partiti ad addestrare le persone. Oggi non più. Ma partiti come quelli di allora non sono indispensabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, partiti di tipo italiano non ce ne sono mai stati ma sono comunque sempre esistiti percorsi alternativi in cui i politici tuttora si formano e acquistano competenze. I Trump non sono la regola.

Le assemblee rappresentative, locali e nazionali, sono tipicamente le migliori palestre per la formazione di politici competenti, in grado poi di governare. Governare significa organizzare il consenso, formare coalizioni fra interessi anche divergenti e mantenerle unite mentre si affrontano i vari problemi pubblici. Chi crede che ciò sia alla portata di chiunque prende fischi per fiaschi. Se l’antiparlamentarismo e l’ostilità per la democrazia rappresentativa sono alla base delle suddette tesi, si deve soprattutto al pregiudizio antiscientifico (le scie chimiche, la polemica sulle vaccinazioni) la svalorizzazione delle competenze altre, di quelle competenze non politiche che tuttavia servono alla politica per affrontare i vari temi dell’agenda pubblica.

Nonostante la loro inconsistenza, le tesi antipolitiche hanno successo, si diffondono e si radicano. Possono farlo impunemente perché la politica non sa ribattere colpo su colpo, non sa contrapporre argomenti seri, forti e duri in difesa di se stessa, della propria indispensabilità, delle proprie virtù. Non è stata fin qui capace di farlo a causa della cattiva coscienza, della consapevolezza degli errori accumulati. Emendarsene è necessario. Ma abbracciare i cattivi argomenti dell’antipolitica, non difendere con fierezza le virtù della democrazia rappresentativa, significa lasciare il campo senza combattere, significa suicidarsi.

Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 1 novembre 2016

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