La corruzione continua a essere protagonista delle cronache giudiziarie italiane. Per questo, proponiamo un estratto da Semplicemente liberale, saggio di Antonio Martino pubblicato da Liberilibri nel 2004.
Se uno spende 10 ed incassa 100, si tratta di un buon affare; se uno spende 100 ed incassa 10, si tratta di un cattivo affare; se uno, per poter incassare 10, fa spendere 10 ad altri, si tratta dell’intervento pubblico e della sua inseparabile compagna, la corruzione. Fra contraenti privati la corruzione è quasi impossibile: nessuno spenderebbe di suo 100 per poter incassare una mancia di 10. La corruzione è possibile solo se la tangente viene incassata da persona diversa da quella che sopporta l’intero costo dell’operazione, l’ignaro contribuente. Lo statalismo è condizione necessaria e forse addirittura sufficiente di corruzione.
Stando così le cose, il danno che la corruzione arreca alla collettività non è affatto rappresentato da quanto incassato dal corrotto (10), ma da quanto il contribuente è stato costretto a sborsare (100) per consentire al corrotto di percepire la tangente. In altri termini, l’intervento pubblico non solo costituisce condizione necessaria di corruzione, ma ne misura anche la portata.
Non la tangente, è misura del nostro danno, ma lo spreco: la spesa pubblica superflua o artatamente gonfiata a livelli molto superiori a quelli strettamente necessari. Il che ci consente di pervenire ad un’importante conclusione: il dissesto finanziario dello Stato è interamente imputabile all’intreccio fra statalismo e corruzione che caratterizza il nostro tempo.