Da Kamala Harris negli Stati Uniti a Emmanuel Macron in Francia, in tutti i paesi d’Occidente capita che sotto elezioni ci si ricordi delle difficoltà del ceto medio e a questi si guardi con particolari speranze e relative promesse elettorali. Di ceto medio hanno parlato anche i ministri economici del governo Meloni nell’illustrare i contenuti della legge di bilancio ora al vaglio del parlamento. E chissà se lo hanno fatto dopo aver letto il sondaggio di Ilvo Diamanti in base al quale coloro che si collocano nei ceti medi votano prevalentemente a destra. Ma cos’è il ceto medio?
Secondo l’OCSE, è quella fascia della società il cui reddito è compreso tra il 75 e il 200% del reddito mediano del paese in cui vivono. Sulla base dei dati Istat, e al netto dell’evasione fiscale, il ceto medio italiano sarebbe quello che guadagna tra i 20mila e i 54mila euro netti l’anno. A leggere il testo la manovra economica, non si può certo dire che a questo giro il governo abbia risollevato le sorti del ceto medio. Anzi: tra il mancato ritocco delle aliquote e la falcidia delle detrazioni fiscali per chi guadagna più di 3300 euro netti al mese, la situazione, almeno per i lavoratori dipendenti, è addirittura peggiorata.
Ma non è questo il punto. Il punto è che finché il ceto medio non si riapproprierà del proprio benessere, la politica sarà sempre più polarizzata e le elezioni nazionali sempre meno frequentate. Il proprio benessere, è dunque la propria serenità, il ceto medio italiano e occidentale l’hanno perso a partire dalla grande recessione del 2008. Prima, il 60% degli italiani si collocava spontaneamente nel centro medio; dopo, la quota è passata al 48%. Prima, il 28% degli italiani si considerava classe sociale bassa o medio bassa; dopo, la percentuale è balzata al 44%.
Secondo un rapporto Censis pubblicato lo scorso agosto, chi sente di appartenere al ceto medio ha cambiato radicalmente “modo di pensare“. Prima, regnavano l’ottimismo e le aspettative di benessere crescente; dopo, è stata la volta del pessimismo e delle aspettative decrescenti. “Stiamo assistendo al declassamento del ceto medio… al progressivo impoverimento della classe produttiva del Paese, quella che a lungo ha rappresentato il motore della nostra economia e il pilastro dell’equilibrio sociale”, a commentato Stefano Cuzzilla, presidente di Cida. Sconfortante l’analisi del sociologo Arnaldo Bagnasco, secondo il quale il declassamento del ceto medio è ormai “un fenomeno strutturale“.
Così fosse, sarebbe la fine della Politica con la P maiuscola. La Politica, infatti, quella vera, è mediazione. E nei sistemi democratici la mediazione si consuma socialmente sul terreno del ceto medio, naturalmente incline al realismo e al buon senso. Con un ceto medio “proletarizzato” nessuna mediazione è possibile. Non è possibile perché gli esponenti del ceto medio sono dominati dalla frustrazione e dalla rabbia, sentimenti che li allontanano dalla partecipazione politica e/o li spingono ad aderire a posizioni radicali, quando non esorbitantemente demagogiche. Non è un caso che in tutte le democrazie occidentali dal 2008 in poi sia sistematicamente crollata la partecipazione al voto e sia sensibilmente aumentata la radicalizzazione dell’offerta politica.
Non sarà, dunque, con la politica dei bonus che il ceto medio riprenderà il vigore perduto. Ma finché quel vigore, e la conseguente fiducia nel futuro, non verranno ripristinati sarà bene rassegnarci al trionfo dei demagoghi, dei sovranisti, dei populisti. Uno scenario allarmante per tutti coloro che ancora credono nella buona politica. Uno scenario drammatico, se si considera che ne “La caduta degli imperi“ gli economisti britannici Peter Heater e John Replay hanno attribuito al declassamento dell’allora ceto medio la caduta dell’Impero romano. Il che, oggi, corrisponderebbe alla crisi strutturale e definitiva dell’Occidente.