La crisi dei liberal: la sinistra americana che non capisce Trump

La crisi dei liberal: la sinistra americana che non capisce Trump

Quando è uscito in America l’anno scorso, l’ultimo libro di Mark Lilla ha suscitato non poche reazioni sulla stampa liberal e nel mondo accademico vicini al Partito Democratico. The Once and Future Liberal: After Identity Politics era infatti una rapida ma incisiva diagnosi, con relativa prognosi, della crisi della sinistra americana (e non solo) che abbandona nettamente il terreno in cui la discussione sul tema si era svolta fino a quel momento. Almeno in quel milieu culturale nel quale Lilla, docente alla Columbia University e collaboratore storico della “New York Review of Books”, fra l’altro apprezzato studioso del pensiero di Giambattista Vico, si è da sempre mosso.

Alle vittimistiche lamentale contro la vittoria del “rozzo” e “incivile” Donald Trump, alla fustigazione morale di coloro che l’hanno votato, all’appello alla mobilitazione democratica, Lilla oppone due idee molto semplici: 1) la prima, teorica, è quella che impone, allo studioso soprattutto, di comprendere prima di esecrare; 2) la seconda, più pratica, è quella che può essere sintetizzata nell’icastica affermazione che si trova nel libro: “l’antitrumpismo non è una politica”.

Di tutte e due queste idee, in verità, anche la sinistra italiana, avrebbe bisogno.

E l’analisi di Lilla si attaglia molto bene anche ad essa: basta sostituire Trump con Berlusconi, prima, o con il governo attuale, poi. Non solo: come dirò in seguito, anche il modello politico alternativo che l’autore propone è molto interessante per noi. Opportuna è perciò la traduzione italiana del libro, curata da Mattia Ferraresi, appena pubblicata da Marsilio col titolo: L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica (pagine 137, euro 12).

Il che presuppone una precisazione: l’“identità” di cui parla Lilla non è quella rigida entità a cui a volte fa riferimento il nostro discorso pubblico, ma quella in voga presso il multiculturalismo relativista, ovvero l’acritica politica pro-minoranze, con connessa ideologia politically correct,  che ha egemonizzato negli ultimi decenni le élites democratiche americane.

“Il liberalismo americano del ventunesimo secolo -esordisce l’autore- è in crisi”. E anche in questo caso usa un termine, “liberalismo”, in un’accezione diversa dalla nostra: egli parla infatti nel libro di liberalismo e progressismo, intendendo per il primo una parte del più vasto arcipelago della sinistra o progressista. Liberal o “liberali” sono stati, ad esempio, i Clinton e Barack Obama, mentre un progressista non liberal può essere considerato Bernie Sanders.

I liberal hanno divorziato dal comune sentire

La crisi consiste per Lilla nel fatto che, da una parte, “la maggioranza degli americani ha fatto chiaramente capire che non è più mossa dal messaggio” basato sull’ “identità”; dall’altra, dal fatto che l’élite liberale non mostra l’immaginazione e l’ambizione necessarie per rispondere a questa crisi di fiducia. La politica democratica, cioè dell’età della democrazia, non può infatti mai divorziare dal sentimento pubblico, pena l’irrilevanza.

Invece, è proprio l’incapacità di agire sull’immaginario comune che sembra contraddistinguere oggi i liberal, i quali vivono in un mondo iperazionalistico e autoreferenziale e si cullano in una propria arrogante pretesa di superiorità morale. Essi predicano la resistenza ai “barbari”, agendo perciò reattivamente. I liberal si fanno così dettare l’agenda politica dall’avversario, anzi da quello che considerano il nemico o il “male assoluto”: lungi dall’affrontarlo con le armi della politica, cercano di delegittimarlo prima di tutto moralmente.

“Perché coloro coloro che dicono di parlare a nome del demos americano non sono interessati a toccare i suoi sentimenti e a guadagnare la sua fiducia?”, si chiede Lilla. Il quale si definisce anch’egli un “liberal frustrato” ma, aggiunge, non da Trump e dai trumpisti, bensì da “un’ideologia che per decenni ha impedito ai liberal di sviluppare una visione ambiziosa dell’America e del suo futuro, che coinvolgesse i cittadini di ogni estrazione e di ogni parte del paese”. I liberal, al contrario della destra, non sono perciò riusciti ad offrire l’immagine di uno stile di vita condiviso. “Nella lotta per l’immaginario americano, i liberal hanno abdicato al loro ruolo”.

Liberal, da dove parte la crisi

Come ciò sia accaduto, Lilla lo ricostruisce storicamente, con ampi e incisivi tratti, individuando due modelli predominanti nella cultura politica americana del secondo Novecento: quello roosveltiano dei primi tre decenni seguenti alla guerra; e quello reaganiano, trionfante a partire dagli anni Ottanta. Il primo modello era solidaristico e fondato sui doveri, il secondo è stato più individualistico e basato sui diritti. Dei due modelli, solo il primo era politico: il secondo, basandosi sull’ “io” e non sul “noi”, era sostanzialmeente antipolitico, anche se poi è stato declinato diversamente a destra e a sinistra. Ma che si sia trattato di preservare i diritti di ogni gruppo o identità particolare, a sinistra, o di limitare e al limite annullare il potere dello Stato sull’io e sulla sua libera iniziativa privata, a destra, comunque questa antipolitica individualistica, dominante almeno fino alla crisi finanziaria del 2007-2008, ha scardinato l’ethos della società americana, e l’idea di una missione da compiere che accomunava tutti i cittadini.

Si ritrova qui un’idea che avevamo visto già in opera nel libro di Giovanni Orsina sul “narcisismo” in politica: il neoliberismo reaganiano e il multiculturalismo identitario sono le opposte, ma speculari, facce di una stessa medaglia, individualistica e antipolitica. Anzi, in qualche modo, con la sua finale deriva psicologistica, l’antipolitica di sinistra ha rinforzato e radicalizzato il modello reaganiano. Da un’attenzione all’emancipazione sociale di alcuni gruppi ben precisi (donne, gay, neri), passando per la teoria del gender, si è infine giunti all’idea che le identità siano liquide e personalizzabili, in un processo pieno di contraddizioni e paradossi che Lilla sapientemente ripercorre.

“Il liberalismo identitario ha smesso di essere un progetto politico e si è trasformato in un progetto evangelico. Con una differenza: l’evangelismo dice la verità al potere. La politica prende il potere per difendere la verità”.  In questo ordine di discorso, l’argomentazione viene sostituita dal tabù. Non era così fino agli anni Sessanta quando i quadri liberal e progressisti si formavano nelle sezioni politiche locali ed erano composti soprattutto da operai delle fabbriche e lavoratori delle comunità agrarie. Oggi a formare le élites democratiche sono campus universitari isolati e autoreferenziali, gli stessi che formano le élites giuridiche, finanziarie e politiche che dominano il mondo.  “A volte i nostri campus più prestigiosi -osserva sconsolato Lilla- sembrano bloccati in un mondo regolato da una religione arcaica”. Con tanto di sciamani, totem, capri espiatori. “Gli identitari di sinistra, che si considerano radicali, che contestano questo e trasgrediscono quello, sono diventati maestrine puritane quando si tratta della lingua inglese, scovano in ogni conversazione le locuzioni indecenti e bacchettano le nocche di coloro che inopinatamente le usano”.

Da qui il divorzio con il “sentimento popolare”, che la destra sa interpretare: con le pulsioni anche irrazionali del popolo, le quali vanno comprese, rispettate (non disprezzate) e incanalate politicamente dai ceti dirigenti. “Una visione politica ampia è stata rimpiazzata dalla retorica pseudopolitica e distintamente americana dell’io ipersensibile e del suo bisogno di riconoscimento” e autenticità. “Il che non era molto lontano dalla retorica antipolitica reaganiana dell’io produttivo e della sua lotta per il profitto. Quella era giusto un po’ meno sentimentale e più bigotta”.

I liberal e Trump

Ora, Lilla non propone una visione nostalgica, anche se apprezza i liberal non identitari e, per certi aspetti, gli stessi vecchi marxisti. I quali, scrive, “tenevano lo sguardo fisso verso l’orizzonte: spesso hanno visto le cose al contrario, oppure hanno inseguito delle chimere, ma almeno osservavano. Con l’emergere della coscienza liberal dell’identità, gli sguardi si sono invece rivolti all’interno. Come tanti progressisti hanno notato, e giustamente lamentato, la retorica dell’identità ha tolto spazio all’analisi delle classi e a come queste siano cambiate all’interno della nostra nuova struttura economica fondata su internet. Non molto tempo fa la politica dei liberal tendeva a ispirare le persone a ricostruire la società. L’attenzione oggi, invece, è tutta sulla passiva costruzione sociale dgli individui”.

È un caso allora che la sinistra americana si sia trovata spiazzata dalla vittoria di Trump, che ha dipinto e continua a dipingere come il “male assoluto”? “La tattica politica preferita” dai liberal è rimasta quella delle manifestazioni di piazza e degli scioperi, invece di dedicarsi, ad esempio, a vincere le elezioni locali”.

La parabola vittoriosa della destra mostra invece proprio questo: bisogna ripartire dal territorio, come diremmo oggi noi in Italia, capire le esigenze dell’uomo qualunque, tradurle in politica. Trump diventerebbe allora non un pericolo, ma un’opportunità o uno stimolo per la sinistra: per reinventarsi, imporre un nuovo paradigma, vincere le prossime elezioni (perché in una democrazia questo e solo questo è lo scopo della politica).

Lilla prospetta pure un progetto politico, basato sulla cittadinanza democratica e su un forte senso della comunità e del dovere. Il suo è una sorta di patriottismo costituzionale e valoriale insieme (è bello il passo in cui esalta l’esame di storia e cultura civile a a cui si viene ancora oggi sottoposti per diventare cittadini americani). Ma qui il discorso, che comunque egli abbozza soltanto, si fa complicato. Anche perché, come scrive sempre l’autore di queste illuminanti pagine, un progetto politico pregnante non si costruisce a tavolino. Così come in laboratorio non nascono i leader, i carismatici traduttori e suscitatori dei più profondi sentimenti popolari. Lo Spirito soffia da solo, ma almeno si possono cominciare ad aprire le finestre per poterne respirare, quando sarà, l’aria.

Corrado ocone, Il Dubbio 14 giugno 2018

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