la cultura del piagnisteo ha messo radici nella vecchia europa

la cultura del piagnisteo ha messo radici nella vecchia europa

Sono passati esattamente quarant’anni da quando nelle librerie italiane uscì, per Adelphi, “La cultura del piagnisteo” di Robert Hughes. Grazie alla prosa affilata e allo spirito anticonformista dell’allora critico d’arte di Time, il pubblico italiano prese coscienza di un fenomeno sociale che a noi lettori comuni venati di ingenuità parve un fatto tipicamente americano, dunque destinato a rimanere confinato oltreoceano: il politicamente corretto. Fenomeno che il sottotitolo del libro qualifica come saga, “La saga del politicamente corretto”. Qualcosa, dunque, a cavallo tra epica e leggenda.

Hughes descrive l’America dei primi Anni ‘90 come “un paese ossessionato dalle terapie e pieno di sfiducia nella politica formale; scettico sull’autorità e preda della superstizione; corroso, nel linguaggio politico, dalla falsa pietà e dall’eufemismo”. Un paese in piena crisi di identità, non più capace di sentirsi unito attorno a valori e principi universalmente condivisi, orripilanti dalla propria forza, nauseato dalla propria identità e mai come prima frammentato in comunità minoritarie indistintamente inclini, appunto, al “piagnisteo”. Nella sottocultura politicamente corretta, scrive Hughes, “c’è sempre un padre-padrone a cui dare la colpa e l’ampliamento dei diritti procede senza l’altra faccia della società civile: il vincolo degli obblighi e dei doveri”. Un fenomeno che, come un virus, ha infettato la società americana con effetti per certi versi paradossali. “Poiché la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime, il rango di vittima comincia ad essere reclamato anche dal maschio americano bianco”, scrive Hughes.

Erano i tempi in cui nelle università statunitensi c’era chi contestava la lettura del Moby Dick di Melville a causa della deplorevole inclinazione del capitano Akab ad accanirsi contro una povera balena. Erano i tempi in cui docenti e capi ufficio cominciavano a ricevere i propri sottoposti con le porte spalancate per prevenire l’accusa di molestie sessuali. Erano i tempi in cui i comitati per i diritti umani iniziavano a reclamare le scuse degli spagnoli per aver sterminato, nel Cinquecento, il popolo Atzeco. Erano i tempi in cui il linguaggio comune si arricchiva di complicate allocuzioni, molti vocaboli venivano proscritti, parecchie colpe venivano attribuite.

Un senso di colpa collettivo iniziò allora ad alimentare un dilagante piagnisteo, che i più ingenui tra noi lettori italiani considerarono un fenomeno di passaggio, comunque tipico della giovane America e pertanto mai esportabile nella vecchia Europa. Duplice errore. Il fenomeno, negli Stati Uniti, non è affatto passato, anzi si è largamente diffuso e sostanzialmente radicalizzato assumendo i nomi di Woke, Mee-To, Cancel Culture… Quanto a noi, evidentemente non ne eravamo immuni. Sì che le bizzarrie allora confinate nei campus e nei salotti buoni dell’élite liberal americana sono via via diventate la regola nelle università europee: a Parigi piuttosto che a Londra, a Berlino piuttosto che a Milano.

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