La differenza che passa tra pace negoziata e resa incondizionata

La differenza che passa tra pace negoziata e resa incondizionata

Al vertice svizzero sull’Ucraina non c’era Xi Jinping: ha declinato l’invito. Da Mosca Vladimir Putin (non invitato) ha dettato le condizioni di un cessate il fuoco. Includono l’annessione di tutto ciò che la Russia ha già occupato con una guerra criminale; più altre zone che Putin non ha neppure conquistato. Il diktat più pesante è che l’Ucraina rinunci ad ogni cooperazione militare con l’Occidente. Una capitolazione. L’Ucraina dovrebbe regalare all’aggressore perfino più territorio di quanto non si sia preso con la violenza. E dovrebbe rinunciare alla propria sicurezza anche futura. Il veto sull’ingresso nella Nato, nonché su patti bilaterali di difesa come quelli offerti dall’America e alcune nazioni europee, è il preludio a nuove aggressioni. L’alto bilancio di vite sacrificate per difendersi dall’invasione russa sarebbe stato inutile.

Chi si autodefinisce pacifista e da due anni invoca una «soluzione diplomatica», dovrebbe aprire gli occhi: questo è Putin. Non da oggi. Sono rivelatrici le carte pubblicate dal New York Times sui negoziati tra febbraio e aprile del 2022, nei primi mesi di guerra. Già allora Putin, oltre alle amputazioni territoriali, esigeva un’Ucraina vassallo della Russia, senza possibilità di accordi di sicurezza con altri Paesi. Chi ha passato questi anni a rimproverare «noi» — Zelensky, Biden, l’Unione europea — di non puntare sulla diplomazia, guardi la realtà in faccia: Putin vuole la resa come premessa per conquiste future; e rispetta solo i rapporti di forze.
Oggi può alzare ancora più in alto le sue pretese perché si sente sicuro di sé. Sul fronte militare l’Occidente ha accumulato ritardi, cautele infinite; ha sottoposto le armi che forniva a Kiev a restrizioni d’uso, tali da regalare vantaggi enormi ai russi.

L’Occidente è pavido anche nell’uso delle sanzioni. La vicenda delle ricchezze russe congelate nelle banche europee è desolante. Due anni e quattro mesi di carneficina sul suolo europeo non sono bastati a espropriare le ricchezze russe, per versarle come risarcimento al popolo ucraino. Il G7 non ha cancellato questa vergogna. Le ricchezze restano congelate ma sempre di proprietà russa. Solo una parte degli interessi che quei fondi fruttano, verrà usata per garantire un prestito all’Ucraina. Un prestito, non un risarcimento. La giustificazione di cotanta viltà? Espropriare il patrimonio estero di Mosca metterebbe in dubbio che gli europei rispettino le regole dello Stato di diritto, cioè la sacralità della proprietà. Gli europei — in questo caso l’America chiedeva una linea dura — hanno scelto la codardia, mettendo il diritto di proprietà di Putin al di sopra del diritto alla vita, alla libertà, e alla sovranità del popolo ucraino.

Il G7 ha fatto qualche passo avanti — a parole — sull’aiuto cinese a Putin. Il comunicato finale denuncia che «il continuo sostegno della Cina all’industria militare russa consente di proseguire la guerra illegale contro l’Ucraina ed ha ampie ripercussioni sulla sicurezza». Non solo la sicurezza ucraina ma di tutta l’Europa, visti gli appetiti imperiali di Putin. Questa frase del G7 è la presa d’atto di una realtà che dura dal febbraio 2022. Xi Jinping ha promesso «amicizia illimitata» a Putin ed è stato di parola. L’armata d’invasione russa non avrebbe mai potuto risollevare le proprie sorti sul terreno, senza il massiccio supporto economico, finanziario, tecnologico da Pechino. La velocità con cui Putin ha riconvertito il proprio Paese ad una economia di guerra, è legata al flusso di forniture dalla Repubblica Popolare. Chi s’illudeva che Xi volesse fare da paciere, non ha capito: il leader comunista ha preso dei rischi scommettendo su Putin, pur di accelerare il declino dell’Occidente.

Il G7 ha cominciato a ridefinire il ruolo della Cina: è citata 28 volte nel comunicato finale, quasi sempre come una potenza pericolosa, protagonista di atti ostili come i continui cyber attacchi contro di noi. Il summit in Puglia ha evocato sanzioni allargate ad aziende cinesi. Non è detto che seguano atti adeguati. La Repubblica Popolare in trent’anni di globalizzazione si è resa indispensabile alle nostre economie. I dazi che Washington e Bruxelles hanno varato di recente contro le sue auto elettriche sono la reazione al fatto che tutta la nostra de-carbonizzazione è in ostaggio al made in China. Perciò Xi è sicuro di farla franca, continuando a tenere i piedi in due mondi: invade i nostri mercati con le sue esportazioni, mentre costruisce una globalizzazione alternativa e sino-centrica, con la Russia, l’Iran, e tanti Paesi emergenti del Grande Sud globale. L’atteggiamento di questi ultimi al vertice in Svizzera non lascia illusioni. Arabia saudita, Brasile e altri si sono astenuti sulle conclusioni. Hanno recriminato sull’assenza della Russia e della Cina come una colpa degli organizzatori. Il loro cuore batte da quella parte, o per una «neutralità» che non hanno abbracciato su Gaza.

Dietro Putin il vero vincitore di questa fase è Xi: prende il meglio da due mondi e per adesso paga prezzi modesti, dazi e rimbrotti occidentali finora sono poco più che punture di spillo (basta guardare il boom delle esportazioni cinesi in atto). Nel medio-lungo periodo la Repubblica Popolare può pagare prezzi più pesanti, solo se l’Occidente persegue con tenacia due strategie parallele: reindustrializzarsi per guadagnare autonomia, e spostare flussi economici verso Paesi non antagonisti come India, Vietnam, Messico. Per adesso queste nuove mappe della globalizzazione sono un obiettivo distante; non scuotono le certezze dell’asse anti-occidentale che oltre a Cina, Russia, Iran, ha troppi simpatizzanti.

 

Corriere della Sera

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