Sabato, due giornali animati da un populismo uguale e contrario come il Fatto quotidiano e la Verità hanno “sparato” in prima pagina un allarmato giudizio sull’annullamento del primo turno delle elezioni presidenziali rumene inquinate dalla Russia attraverso TikTok. Giudizio categorico, in serata fatto proprio anche dalla Lega: quando “il popolo“ sceglie un candidato sgradito all’establishment europeista ed atlantista (il filoputiniano Calin Georgescu) una manina élitista (la Corte costituzionale rumena) cancella il risultato delle elezioni. Insomma, fanno strame dei principi democratici sovvertendo la volontà popolare. Interpretazione legittima, fors’anche fondata, ma parziale.
Come nel celebre apologo del dito e della luna, si tende a concentrare l’attenzione sul primo, trascurando di conseguenza la seconda. La luna, nell’era dei social network, è il rapporto tra l’informazione e la democrazia.
Facciamo un passo indietro.
La libertà dell’informazione, le responsabilità di chi ne ha l’onere e il pluralismo sono da sempre capisaldi del pensiero liberale, nella convinzione che soprattutto da questi fattori dipenda la qualità di un sistema democratico. La libera stampa, osservò Benedetto Croce, “tiene l’ufficio che nelle piccole città antiche avevano tenuto le agorà”. Trasmette, cioè, conoscenze e anima il dibattito. Un “ufficio” essenziale, basato sulla consapevolezza che, come osservò il sociologo statunitense Walter Lippman nel lontano 1922, di per sé l’opinione pubblica non esiste: è il risultato della rappresentazione che i mezzi di comunicazione danno della realtà. Rappresentazioni distorte generano opinioni distorte.
È per questo che in tutte le democrazie liberali del mondo l’informazione è stata ed è regolamentata da norme antitrust, carte deontologiche, articoli del codice civile e persino di quello penale. Un direttore di giornale, ad esempio, è civilmente e penalmente responsabile di tutto ciò che viene scritto sulla propria testata. Una responsabilità esorbitante, non essendo realistico che possa controllare ogni articolo di ogni pagina locale e nazionale del giornale che dirige. Ma una responsabilità giusta. Giusta in via di principio.
Si dà, però, il caso che il mondo dell’informazione sia stato letteralmente sovvertito dalla rivoluzione digitale. Oggi, la metà degli elettori si informa, e di conseguenza si forma un’opinione, esclusivamente sui social network. E i social network non sono (ancora?) soggetti alle regole cui sono assoggettati i media tradizionali. L’informazione, dunque, può essere legittimamente concentrata nelle mani di pochi e nessuno è concretamente responsabile di nulla. Per i padroni dei social, quello che conta è creare traffico, perché dal volume del traffico e dalle interazioni che sono in grado di provocare dipende il loro business. Il problema è che a funzionare sui social, e dunque a determinare il traffico più consistente, sono la logica oppositiva, le banalizzazioni e le balle. Per capirci, una ricerca del Mit di Boston ha dimostrato che su Twitter le notizie false si diffondono sei volte più velocemente delle notizie vere.
Come ha ben documentato il libro “La democrazia migliore” scritto dal professore Gianluca Sgueo sulla base di una ricerca realizzata dalla Fondazione Luigi Einaudi, la tecnologia digitale sta letteralmente “trasformando” il potere. E assieme al potere sta trasformando la democrazia. Una trasformazione che potrebbe rivelarsi sia positiva sia negativa, ma che in ogni caso necessita di regole.
Il punto, dunque, non è tanto quello che accade in Romania, ma quello che accade nel mondo. Il punto non è tanto l’opera di disinformazione messa in atto dalla Russia di Putin né l’annullamento straordinario dei risultati elettorali in Romania, quanto la dinamica ordinaria dei social network e l’anarchia che ancora caratterizza il loro rapporto con le società. Il punto non è il dito, il punto è la luna.