La manovra concordata nei giorni scorsi con Bruxelles introduce essenzialmente tre cambiamenti: meno spesa corrente, meno investimenti pubblici, un po’ più di tasse, con conseguente miglioramento dei saldi (il deficit previsto scende dal 2,4% al 2%, un valore assai prossimo a quello del 2018, ereditato dal governo Gentiloni).
Sulla natura della “manovra del popolo” i pareri sono divisi. C’è chi vi riconosce un cambiamento sostanziale rispetto al passato, nel bene o nel male a seconda dei punti di vista. E chi invece sottolinea che nulla di veramente importante è cambiato: come sempre, le uscite della Pubblica Amministrazione sono di più delle entrate; come sempre, ci sono misure chiaramente elettorali; come sempre, il futuro è costellato di “clausole di salvaguardia” (aumenti automatici di tasse); come sempre, il metodo è quello: mega testo illeggibile, maxi-emendamento del governo, voto di fiducia.
L’unico punto su cui, fra gli analisti indipendenti, sussiste un notevole grado di consenso è che la manovra non è in grado di fornire alcuna spinta all’economia, né tanto meno di fermare la recessione in arrivo. Questa valutazione poggia su tre circostanze obiettive.
1. La manovra non è espansiva, perché l’avanzo primario è analogo a quello di quest’anno.
2. La manovra non stimola la crescita perché non contempla né una riduzione della pressione fiscale sui produttori né un aumento degli investimenti pubblici.
3. La manovra, attraverso l’impennata dello spread, ha già innescato molteplici meccanismi pericolosi: maggiori spese dello Stato per il rifinanziamento del debito pubblico; perdite (virtuali) di famiglie e imprese che detengono ricchezza finanziaria; aumento dei tassi sui nuovi mutui; restrizioni (per ora modeste, ma destinate a crescere) del credito a famiglie e imprese.
Assai più controverso è ovviamente il giudizio sulla bontà dei contenuti della manovra, al di là dello loro capacità di stimolare la crescita. Su questo è impossibile dire qualcosa di ragionevolmente obiettivo, perché ognuno di noi ha priorità diverse, oltreché – spesso – una concezione diversa delle conseguenze delle misure governative. Per parte mia, se dovessi qualificare la manovra con un solo aggettivo, userei l’aggettivo “elettorale”. Anzi, se avessi a disposizione anche un avverbio, direi “smaccatamente elettorale”. Da questo punto di vista la cosiddetta manovra del popolo e il governo che l’ha concepita rappresentano davvero una rottura con il passato. Una rottura che è assoluta rispetto al governo Monti, forse il governo meno elettorale della storia repubblicana, ma che, in parte (e contro le apparenze), è tale anche rispetto ai governi Renzi e Gentiloni.
È vero, hanno perfettamente ragione quanti, di fronte alla mossa di varare reddito di cittadinanza e Quota 100 a poche settimane dal voto europeo 2019, ricordano l’analoga mossa di Renzi nel 2014, con il bonus da 80 euro calato nelle buste paga giusto prima dell’appuntamento europeo 2014. Così come hanno ragione quanti ricordano gli innumerevoli bonus e misure varie che a quella mossa seguirono nei gloriosi anni del centro-sinistra. E ancor più ragione hanno quanti sottolineano un altro elemento di continuità, ovvero la cattiva abitudine di ipotecare il futuro con clausole di salvaguardia (aumenti di tasse), che tranquillizzano Bruxelles e riducono i gradi di libertà dei governi che verranno.
E tuttavia una differenza, un salto di qualità e di quantità, fra la manovra del popolo e le manovre del passato recente, a mio parere c’è. Lo riassumerei così: dopo Monti, tutte le manovre hanno avuto dosi di elettoralismo considerevoli, e tutte hanno fatto ricorso alle clausole di salvaguardia, ma solo ora, con la “manovra del popolo”, quasi tutte le misure sono di tipo elettorale, e la macchina delle clausole di salvaguardia prosciuga completamente gli spazi di manovra dei governi futuri.
La differenza più importante con il passato riguarda il mondo dei produttori. Nelle manovre degli ultimi 4-5 anni, accanto alle misure di stampo prevalentemente elettorale, erano presenti misure rilevanti di sostegno alla crescita, dalla decontribuzione agli sconti fiscali, dal Jobs Act ai provvedimenti di Industria 4.0. Oggi non solo scarseggiano le nuove misure in favore dei produttori, ma si fa marcia indietro su quasi tutte le misure varate nel recente passato: soppressione dell’Ace (Aiuto alla crescita economica); mancato decollo dell’Iri (Imposta sul Reddito Imprenditoriale); ridimensionamento di Industria 4.0 (poi divenuta Impresa 4.0); indebolimento del Jobs Act (attraverso il cosiddetto Decreto dignità); nuove tasse sulle imprese, sulle società finanziarie e sulle banche; per non parlare dello stop imposto a tante grandi opere. Detto in altre parole, il saldo fra le nuove misure pro-imprese (come la mini flat tax sulle partite Iva) e le vecchie misure soppresse o modificate è drammaticamente negativo. Di qui il malcontento che, da qualche mese, comincia a serpeggiare soprattutto nel Nord, dove anche l’elettorato leghista non capisce perché smontare la legge Fornero sia diventato, improvvisamente, molto più importante che varare la flat tax.
L’altra grande differenza con il passato è l’entità delle clausole di salvaguardia, praticamente raddoppiate rispetto alle leggi di bilancio degli ultimi anni. Una zavorra enorme per qualsiasi governo futuro, compreso il governo gialloverde, che già nell’autunno prossimo dovrà ingegnarsi a trovare 23,1 miliardi per non aumentare l’Iva e altre tasse.
Ecco perché, tornando alla questione posta all’inizio (fu vero cambiamento?), la mia risposta è che sì, la manovra del popolo è diversa da quelle del passato, ma la ragione principale per cui lo è non è che cambia direzione, bensì che accentua i due principali difetti delle manovre dei governi precedenti: troppe misure elettorali, abuso delle clausole di salvaguardia. Il che, forse, rende più attuale che mai l’interrogativo posto nei giorni scorsi dall’ex premier Paolo Gentiloni: il governo Conte intende durare, o dà per scontato che la sua pesante eredità – economia ferma & clausole di salvaguardia –dovrà gestirla qualcun altro?
Luca Ricolfi, Il Messaggero 23 dicembre 2018