La globalizzazione, si dice, ha accresciuto la povertà. È vero l’esatto contrario: si contavano 1 miliardo 900 milioni di morti di fame, oggi sono 700 milioni. Comunque troppi, ma assai meno. Questo nel mondo, si obietta, ma da noi sono cresciuti, i poveri. Ammettiamo (ma è ammissibile?) che la miseria altrui non ci riguardi, entriamo in casa nostra.
L’Istat misura la povertà relativa e quella assoluta.
La povertà relativa si riferisce a famiglie o individui con un reddito pari al 50-60% di quello medio. Misura la disuguaglianza, perché se la ricchezza è alta il povero relativo è in realtà solo un “meno ricco”. In ogni caso non è cresciuta significativamente. Diverso per la povertà assoluta, che riguarda chi, ogni mese, spende per un valore pari, o inferiore, a quello di un paniere di beni e servizi essenziali.
Cambia nel tempo: un povero assoluto di oggi è meno povero di un povero assoluto negli anni ’50. Dal 2007 (inizio dell’ultima crisi) al 2016 questa povertà è più che raddoppiata: dal 3.1 al 7.9% della popolazione. Ma occorre tenere presenti due cose: 1. quel tipo di povertà era al 20% negli anni ’70, per scendere al 3.1 nel 2007; 2. la percentuale si riferisce ai residenti in Italia, ma se si considerano le famiglie di italiani è “solo” al 4.4%, il resto sono immigrati.
Da troppo tempo cresciamo meno degli altri europei. Gli effetti si sentono. Ma tendiamo anche a raffigurarci in modo difforme. Che è un problema, perché se sbagli la diagnosi è improbabile indovinare la terapia.[spacer height=”20px”]
Davide Giacalone, 17 maggio 2018