Crescita, flessibilità, fine dell’austerity sono le parole chiave nei commenti sul nuovo Documento di Economia e Finanza del governo Renzi. La promessa, in sintesi, è quella di far ripartire la crescita, chiedendo all’Unione Europea maggior flessibilità sul deficit. In vista, ma non quest’anno, c’è anche la riduzione della pressione fiscale. Sarà vero?
Si tratta di obiettivi realistici? Lo abbiamo chiesto a Veronica De Romanis, docente di Politica Economica Europea alla Stanford University, una lunga esperienza al Ministero dell’Economia e Finanza, autrice de Il Metodo Merkel e Il Caso Germania. In questa intervista spiega a La Nuova Bussola Quotidiana come l’obiettivo della crescita, fissato all’1% del Pil, sia molto difficile da raggiungere viste le condizioni attuali e il bonus europeo per consentirci ancora flessibilità sul deficit è stato in gran parte già speso negli anni scorsi.
Professoressa De Romanis, partiamo dalla promessa di crescita. L’obiettivo è un +1% del Pil. Le stime dell’Ocse, però, prevedono una crescita inferiore (0,8%) e Confindustria, addirittura, la metà. E’ realistico, a suo avviso, l’obiettivo dell’1%?
Per il 2017, il Def ha previsto una crescita dell’1,4%, ora tagliata all’1%. Una stima ottimista considerando il rallentamento in corso dell’economia globale, le diverse incognite come la Brexit ma anche tenuto conto della deludente crescita per l’anno in corso. Nei primi due trimestri, l’Italia è cresciuta in media dello 0,1%, la performance più bassa dei paesi dell’area dell’euro. L’acquisito (ossia la crescita che si avrebbe a fine anno se i prossimi due trimestri fossero piatti) si attesta allo 0,7%, pertanto, il 2016 dovrebbe chiudersi con un valore intorno allo 0,8%, inferiore alla previsione del Def di aprile pari all’1,1% per cento.
A giudicare dalle notizie, pare che il grosso dello sforzo speso dal premier Matteo Renzi in Unione Europea, consista nell’ottenere maggior flessibilità sul deficit. Si prevede che il rapporto deficit Pil (stando all’ultimo aggiornamento) arrivi al 2,3%. Ammettendo che Renzi vinca la battaglia, un aumento del deficit potrebbe stimolare la crescita?
La battaglia è sicuramente complicata anche perché la flessibilità è un’eccezione non una regola e quindi come tale può essere utilizzata solo in maniera temporanea. Ecco perché il governo italiano si è impegnato a rimettere già a partire dal 2017 le finanze pubbliche su un sentiero sostenibile. Ma anche se fosse accordata, la flessibilità deve servire a stimolare la crescita. La logica è: spendo di più (o abbasso le tasse) oggi, per crescere di più domani e poter così riassorbire il maggiore indebitamento che ho creato.
I circa 14 miliardi di flessibilità ottenuti nel 2016 (ossia 8 miliardi per le riforme, 4 miliardi per gli investimenti e 1,6 per le spese per i migranti) sono stati utilizzati in gran parte per disinnescare la clausole di salvaguardia (introdotte dal governo per finanziare spese già effettuate negli anni precedenti). Quindi non per ridurre la pressione fiscale, ma per evitare un aumento. Dal lato delle spese, il taglio netto è stato di 360 milioni di cui 319 in conto capitale, proprio il comparto più produttivo
Il maggior rimprovero che Matteo Renzi muove all’Europa riguarda il modello di austerity, che a suo dire sarebbe una causa della crisi e non la sua soluzione. Ma l’Italia ha realmente attraversato (subendolo) un periodo di politiche di austerity?
In realtà, in Italia in questi anni di governo Renzi di austerità non c’è stata molta traccia. E i numeri lo dimostrano. Un modo semplice per calcolare il grado di austerità è quello di misurare la variazione – rispetto all’anno precedente – del saldo primario strutturale, ossia al netto degli interessi sul debito e corretto per gli effetti ciclici. Dai dati si evince che nel triennio 2013-2016, la politica fiscale in Italia è stata espansiva: il surplus primario strutturale è sceso, infatti, dal 3,5 al 2,6 per cento del Pil.
Pertanto, non si può dire che ci sia stata austerità. E, infatti, la spesa pubblica ha continuato a crescere. Le spese totali sono aumentate di 865 milioni. E aumentano anche al netto degli interessi per circa 340 milioni. Diminuiscono invece di 6 miliardi le spese per interessi ma questo è dovuto alla politica monetaria espansiva messa in campo dalla Banca Centrale Europea.
Alla Germania, Renzi rimprovera di non aver rispettato le regole sul surplus commerciale.È una critica pertinente?
Chi dice che la Germania non rispetta le regole o non ha letto i trattati oppure non li ha capiti. Il surplus commerciale è infatti uno dei 14 indicatori che definiscono la valutazione che la Commissione europea fa ogni anno sugli squilibri macroeconomici dei vari paesi. Tra questi indicatori c’è anche il tasso di occupazione, la disoccupazione giovanile, quella di lunga durata, la competitività, il tasso di cambio, ecc. La Germania non ne rispetta 2 su 14, l’Italia 5 su 14. Eppure nessuno dei due paesi è sotto procedura per squilibri macroeconomici.È come dire che uno studente ha due insufficienze nel caso della Germania, ma non per questo viene bocciato. Certo il problema resta.
La Germania deve fare uno sforzo per cercare di aumentare la domanda interna e investire l’eccesso di risparmio. Ma come ha sostenuto più volte Mario Draghi “non si tratta di una economia pianificata, e quindi non si può spingere un bottone e cambiare le cose”. Ci vuole del tempo. Il Ministro delle Finanze Schäuble ha annunciato una riduzione delle tasse e un piano di investimenti di circa 10 miliardi per i prossimi anni. Molto ancora potrebbe essere fatto. Ma è sbagliato pensare che la soluzione dei problemi dell’Italia arriverà da una maggiore domanda tedesca. Primo perché solo un terzo del surplus commerciale tedesco proviene dai paesi dell’unione (tra l’altro, la gran parte è con il Regno Unito). E poi, perché per attirare investimenti dall’estero, l’Italia deve implementare le riforme strutturali. Altrimenti, il risparmio tedesco si indirizzerà in paesi dove la giustizia e la pubblica amministrazione funzionano meglio. Fino ad ora, si è fatto poco.
Sappiamo già, da quel che è stato pubblicato, che l’Irpef non verrà ridotta e nemmeno il cuneo fiscale. Eppure Renzi dichiara che con questo governo le tasse degli italiani saranno abbassate. L’anno prossimo potremo pagare realmente meno allo Stato?
Per ridare slancio alla crescita e quindi all’occupazione, la Commissione europea ci chiede oramai da anni di spostare il carico fiscale dai fattori produttivi agli immobili. I dati a questo proposito parlano chiaro. Il cuneo fiscale in Italia è tra i più alti al mondo è in aumento: negli ultimi 15 anni è passato per un lavoratore single dal 47,1% al 49% (mella media dei paesi OCSE non solo il livello è ben più ridotto ma la tendenza è stata verso una diminuzione: dal 36,6% del 2000 al 35,9% del 2015). Mentre, la tassazione sugli immobili è in linea con la media dei paesi europei. Eppure si è deciso di intervenire proprio sull’Imu.
Intervista di Stefano Magni, tratta dal sito www.lanuovabq.it