È proprio vero quanto afferma nei suoi discorsi l’attivista iraniana per i diritti umani Mashi Alinejad. “Il velo è solo un simbolo della protesta, simboleggia l’oppressione ed è paragonabile al Muro di Berlino: se lo si abbatte, l’intero sistema crollerà”, è questo il grido di libertà delle donne iraniane al mondo.
L’obbligo del velo è il pilastro più debole su cui si fonda la rigida applicazione delle leggi islamiche che costringono le donne alla segregazione e la polizia morale ha il compito di controllare l’abbigliamento delle persone e di arrestare soprattutto le donne che non rispettano leggi islamiche vigenti.
Il regime teocratico non può rinunciare all’applicazione rigida del suo codice di abbigliamento che segrega le donne confinandole in uno spazio di minorità: inferiori agli uomini, dunque. Non può sopportare che da sei mesi le ragazze del liceo e delle università non rispettano più la legge sul velo; con questa rivoluzione, infatti, le donne hanno di fatto già abolito l’obbligo di indossarlo. Ora le donne, quasi ovunque, soprattutto le più giovani, mostrano pubblicamente le loro ciocche al vento. Dopo sei mesi di una coraggiosa lotta a mani nude, al prezzo della vita, con la disobbedienza civile e con gesti gioiosi, ironici e densi di simbolismo, le donne, per le strade, sui mezzi pubblici, nelle scuole e nei campus universitari, ora ostentano i loro fluenti capelli, sciolti o a coda di cavallo, legati in crocchia o modellati in bob.
La cosiddetta polizia morale, tuttavia, continua a terrorizzare le donne di qualsiasi età, a partire dalle bambine di 7 anni.
Sara Shirazi, una fanciulla di appena 9 anni, verso le ore 12 e 40 di venerdì 24 febbraio, tornava a casa tutta allegra e sorridente canticchiando, con il suo scialle poggiato sulle spalle, dopo essere uscita dalla scuola elementare Isfahan. Nel suo percorso verso casa ha incontrato il suo orco impersonato da una donna agente del regime, di nome Razieh Haftbaradaran, che l’ha rimproverata perché il suo foulard non le copriva il capo. Sara non comprendeva il motivo del rimprovero e si è ribellata a questa imposizione ed è stata picchiata duramente al volto e spinta a terra; cadendo ha battuto la testa sul marciapiede.
Alcuni testimoni hanno ripreso la brutale aggressione in un video, diventato virale sui social, in cui si vede la povera Sara seduta sul bordo del marciapiede con i vestiti insanguinati mentre, singhiozzando, cercava con le mani di arginare il sangue che le usciva copiosamente dal naso.
I passanti che l’avevano soccorsa e poi trasportata in ospedale hanno denunciato la donna che l’aveva brutalmente picchiata.
I genitori della bambina sono stati subito minacciati dalle forze volontarie paramilitari basij che hanno loro intimato di non diffondere la notizia dell’aggressione “altrimenti Sara avrebbe fatto la stessa fine di Mahsa Amini”.
L’autrice di tale efferatezza ha cercato di negare l’accaduto e ha inventato una storia di un presunto litigio tra coetanee.
Ma le numerose testimonianze hanno rivelato l’orribile realtà dell’accaduto. Razieh è stata arrestata e Sara portata in ospedale.
Dopo qualche ora, la donna è stata rilasciata e la famiglia minacciata.
Non importa quale sia la loro età, le donne in Iran sono tutte in pericolo, sono segregate come prigioniere nelle mani di un regime orrifico.
La signora, che in nome di un credo religioso aggredisce con violenza una bambina che poteva essere sua figlia, probabilmente non sarà incriminata perché le sue convinzioni coincidono con quelle della Guida Suprema Ali Khamenei che ha promesso tolleranza zero sull’obbligo dell’uso dell’hijad, secondo il codice di abbigliamento islamico reso ancora più rigido subito dopo l’arrivo al potere del presidente Raisi.
Da oltre tre mesi sono in atto veri e propri attacchi con avvelenamento da agenti nervini in diversi licei del paese.
Sono oltre 800 le ragazze senza velo di 120 scuole dell’Iran, in particolare a Qom e a Borujerd, che hanno accusato sintomi da avvelenamento respiratorio. Molte di esse sono finite in ospedale e una ragazza di 11 anni di una delle scuole religiose più prestigiose di Qom, città santa per gli sciiti, è morta. Il suo nome è Fatemeh Rezaei, la sua famiglia sarebbe stata minacciata di non divulgare la notizia e di rimanere in silenzio.
Il movimento giovanile di protesta accusa il regime della Repubblica islamica di volersi vendicare del coraggioso attivismo delle donne che hanno generato un moto di ribellione nonviolenta che sta scardinando le fondamenta ideologiche su cui si basa la teocrazia.
L’opposizione sia in patria che in esilio sostiene che dietro questi gravissimi atti criminali vi sia la mano del regime che avrebbe incaricato gruppi di estremisti religiosi di mettere in atto tali azioni terroristiche nei confronti delle studentesse che si oppongono all’obbligo dell’hijab per escluderle dalle scuole e tenere dunque lontane dall’istruzione pubblica le alunne senza velo che hanno di fatto abbattuto l’apartheid di genere in Iran.
Sotto accusa è l’organizzzazione sciita Hamian-e Velayat, un gruppo estremista religioso che nel passato aveva lanciato attacchi contro i derwishi. Hamian-e Velayat è molto legata al figlio della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei e ai pasdaran. L’obiettivo della parte più radicale del regime sarebbe quelli di terrorizzare la popolazione.
L’avvelenamento di massa degli studenti sta rivelando una strategia terroristica mirante a costringere le adolescenti a indossare l’hijab e a dissuaderle dal manifestare.
Alcuni medici hanno confermato la sintomatologia tipica da avvelenamento da agenti organofosfato che provoca forte sudorazione, eccesso di salivazione, vomito, ipermotilità intestinale, diarrea, perdita momentanea della vista, difficoltà respiratorie e paralisi, fino all’esito della morte. Tali sintomi si possono presentare anche a distanza di due settimane.
La rete Shargh sostiene che durante l’attacco chimico gli assistenti scolastici indossavano mascherine, ma nessuna mascherina era stata distribuita ai ragazzi.
Gli attacchi con avvelenamento da agenti nervini si sono registrati nelle università e nei licei di Tehran, del Khuzestan, Lorestan, Khorasan Razavi, Fars, Isfahan, Alborz, Markazi, Ardabil, Golestan, Yazd, Hamedan, Azerbaigian occidentale e orientale e perfino il Conservatorio femminile di Kardanesh a Tabriz.
Il viceministro della Sanità, Yunus Panahi, è stato costretto a rilasciare una dichiarazione. Ha confermato i casi di avvelenamento e ha ammesso che si tratta di azioni deliberate avanzando sospetti su alcuni gruppi islamisti sciiti estremisti contrari a che le ragazze adolescenti frequentino la scuola. Qualcosa di simile sta accadendo in Afganistan. Ma i manifestanti sostengono che è in atto una strategia da parte delle autorità iraniane mirante a terrorizzare le donne che non intendono osservare l’obbligo del velo. “Vogliono che tutte le scuole, in particolare quelle femminili, vengano chiuse”, affermano.
Il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri ha ordinato un’indagine penale su tali accadimenti. Il portavoce del regime Ali Bahadori Jahromi ha confermato che i Ministeri dell’Intelligence e dell’Istruzione stanno indagando per scoprire la causa degli avvelenamenti.
Ma al momento le autorità della Repubblica islamica sembrano tollerare questi casi di avvelenamento seriali. Nonostante siano trascorsi più di tre mesi dall’inizio degli attacchi chimici nelle scuole, non hanno ancora identificato e arrestato gli autori di tali orribili atti.
Il regime non riuscendo più a far rispettare l’odioso codice di abbigliamento starebbe ricorrendo alla strategia terroristica per costringere le mamme a fare indossare il velo alle loro figlie o a non mandarle più a scuola.
Nei parchi, nei caffè, nei ristoranti, nei centri commerciali, e in tutti i luoghi frequentati dai giovani, le ragazze mostrano il loro capo scoperto.
Per gran parte delle giovani donne, comprese celebrità del mondo dell’arte, dello spettacolo e dello sport, “l’era dell’hijab forzato è ormai finita”.
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