La riforma che serve alla giustizia malata

La riforma che serve alla giustizia malata

Sono un magistrato, o meglio un ex magistrato, ho lavorato a lungo nelle procure, conosco bene i meccanismi della giustizia, conosco bene quando un magistrato o un giudice usano le giuste leve per giocare con la parzialità e l’imparzialità, conosco bene quali sono gli stratagemmi che usano molti miei colleghi, o ex colleghi, per trasformare l’obbligatorietà dell’azione penale in un’arma ricattatoria contro il potente di turno che vogliono combattere e dopo anni di studio della materia, per così dire, confesso che oggi, se fossi al posto di chi ancora è contrario alla separazione delle carriere non avrei il coraggio di dirlo per paura di essere preso per grullo. Non dobbiamo prenderci in giro, amici magistrati, perché tutti sappiamo come funziona il mondo e come funziona il nostro mondo. Nell’attuale contesto ordinamentale, perdonate la parola altisonante, il giusto processo, così come regolato dall’articolo 111 della Costituzione, è sempre restato sfacciatamente bello e impossibile.

Dovremmo chiederci, cari colleghi, perché oggi ormai quasi tutti concordano, a parte l’Associazione nazionale magistrati, sul fatto che il pessimo stato della nostra malata bradigiustizia – quel pessimo stato che fa paura a tutti, ossia agli investimenti stranieri oltre che ai medici che curano o ai sindaci che firmano o ai giardinieri che potano e così via – non dipende da una punizione divina, ehi, che ci dobbiamo fare, è andata così. Ma dipenda da altro: da pura ignoranza generale della magistratura (memorabile sul punto il coming out espresso a Siena tanti anni fa, forse era il 2017, dall’Associazione nazionale magistrati nella relazione di sintesi del loro congresso nazionale, ciliegina sulla torta l’enunciata speranza nella scuola superiore della magistratura) e soprattutto da una mancanza di specializzazione professionale, di quella specializzazione che invece connota sempre più qualsiasi professione.

Ancora oggi infatti, nonostante sopravvenute micromodifiche ordinamentali degli ultimi anni, nell’alveo di un’unica e commista carriera regolata da un unico e indistinto Csm, Consiglio superiore della magistratura, i magistrati possono più o meno disinvoltamente saltellare, in quanto notoriamente tuttologi e periti peritorum, da un sereno ruolo giudicante a una arcigna funzione requirente. E viceversa. Ancora oggi che ci si può imbattere da una parte nel chirurgo iperspecialista della prima falange del dito mignolo della mano destra o nell’informatico iperspecialista di crittografia per password manager e, dall’altra, nella competenza universale della nostra magistratura. Ancora oggi si fanno orecchie da mercante a fronte dell’assioma (lo definiamo così perché così accade) che, fino a quando non si separeranno le carriere, nell’attuale dialettica anzi pseudodialettica dibattimentale il giudice non sarà mai terzo e imparziale ed equidistante ma, come è naturale, tenderà ad ascoltare il collega pubblico ministero come fosse prezioso coadiutore amico della giustizia e il difensore come fosse impiccione guastafeste di cui diffidare in quanto sempre pronto a inserire bastoni tra le ruote. Orecchie da mercante a fronte dell’assioma che, fino a quando la carriera sarà unica, pm e gip potranno continuare a dialogare rovinosamente nel pieno del procedimento (o essere sospettati di farlo, il che non sposta il problema) come buoni colleghi conviventi – più o meno occasionalmente, più o meno interessatamente, sia chiaro – sulla verosimiglianza di quelle ipotesi o sulla praticabilità di quegli accertamenti o sulla necessità di integrare le indagini. Agevolati dal fatto che, solitamente, pm e gip condividono da remoto la disponibilità degli atti digitalizzati, mediante One Drive o simili, e possono così governarli secondo necessità, naturalmente non dimenticando il copia incolla che gonfia e dà autorità a qualsiasi fascicolo, clic se ti adegui e faticosa motivazione se disattendi. Orecchie da mercante, infine, sul fatto che fino a quando non si separeranno le carriere, il giudicante in camera di consiglio sentirà sempre il rischio di sconfessare e danneggiare lavoro e immagine del collega cui è legato da tante comunanze.

Così non va. È irragionevole oggi nutrire il sia pure minimo dubbio sull’urgente necessità di separare le carriere e affinare le rispettive specializzazioni, quale primo inevitabile passo per poter poi pensare alle riforme conseguenti e tentare di allinearci al resto del mondo. Non c’è chi non veda – a parte l’Anm naturalmente – che per gli attuali paradigmi criminologici e tecnoscientifici non basta infatti tutto l’arco di una vita professionale, quanto ad acquisizione delle necessarie competenze specialistiche speculari, mediante il solo avvicendamento nei due ruoli. Le carriere vanno separate, la loro specificità non può essere sottovalutata, la preparazione professionale non deve essere comune ma mirata allo spasimo, cultura della giurisdizione per chi deve giudicare e cultura dell’investigazione corretta per chi deve esercitare il diritto punitivo dello stato. Perché indagini e normative sono sempre più complesse e sovranazionali, le fonti di prova sempre più scientifiche e sofisticate, i grandi crimini economico-finanziari e fiscali e gli incroci societari anonimi sempre più globalmente interconnessi, gli algoritmi valutativi o predittivi sempre più imperversanti e onnipresenti, i protocolli investigativi sempre più tecnici, le interpretazioni e gli accertamenti peritali quasi esoterici, la necessità di continui aggiornamenti sempre più incalzante. Insomma, non pasta un magistrato peritus peritorum.

Quando già in Assemblea Costituente Piero Calamandrei e Giuseppe Grassi – quest’ultimo firmò la Costituzione quale ministro guardasigilli – espressero perplessità sul fatto che la carriera fosse unica, si tagliò corto rinviando la soluzione alla allora imminente riforma ordinamentale ma nulla cambiò. Quando il 13 giugno 1987 Enzo Tortora venne definitivamente assolto da tutte le gravissime imputazioni il presidente pro tempore dell’Associazione nazionale magistrati tentò di tranquillizzare l’opinione pubblica: non sarebbero più accaduti errori così gravi perché entro un paio d’anni l’allora vigente processo inquisitorio sarebbe stato sostituito da un nuovo processo di stampo accusatorio, “all’americana, due parti in guerra davanti al giudice terzo e imparziale,” spiegò. La separazione delle carriere avrebbe dovuto essere il naturale corollario – come in quasi tutti i paesi anglosassoni ed europei con processo di stampo accusatorio – ma invece, a dir il vero con grande solerzia, si provvide solo a degradare di posto il pubblico ministero di udienza, non più sulla pedana assieme al giudicante. Ma giù sul pavimento accanto al difensore, tutto qui e nient’altro cambiò.

Fu Giovanni Falcone tra i primi ad accorgersi che alla riforma processuale mancava qualcosa. Non è possibile, il pm non può essere “parente” del giudicante, “le carriere vanno separate, ne va della qualità dei risultati” sbottò più volte, ma nonostante ciò anche questa volta tutto restò come prima.
Passarono gli anni, inutilmente. La centralità delle indagini (prevalentemente di polizia e dunque prive della garanzia della difesa, anche perché un pm da solo non può tenere il passo di squadre di investigatori) e la funzione solo o quasi solo scenica del dibattimento furono sempre più evidenti.

La Corte costituzionale ci mise del suo, sostanzialmente rese ancora più vano l’impianto accusatorio del codice 1988 – già minato dalla non separatezza delle carriere – con la sentenza numero 255 del 3 giugno 1992 che, ritenendo “fine primario e ineludibile del processo penale quello della ricerca della verità”, ravvisava in codesto impianto “il principio di non dispersione dei mezzi di prova”, che qualche sconsiderato e irrispettoso burlone assimilò a quello del norcino che dell’animale non vuole buttare via nulla. Arrivò il processo mediatico di Mani pulite, sarabanda di funzioni e carriere e professioni varie. Con la stampa nazionale che ogni giorno condannava e beatificava, sempre all’unisono, dopo zelanti riunioni mattutine delle testate più importanti (Goffredo Buccini, Il tempo delle mani pulite) e con il gip, sempre il solito, che si appiattiva acriticamente sulle richieste dei colleghi pm perché, a suo stesso dire, tra il 1992 e il 1993 la mole degli atti di Mani pulite a lui pervenuta era stata tale che, spesso, i suoi erano stati pedissequi accoglimenti delle istanze del collega pm e quelli del collega pm pedissequi accoglimenti delle richieste della polizia giudiziaria (Italo Ghitti, intervista di Tv7, 2002).

Arrivarono gli scandali Palamara, Trattativa, Mafia Capitale, Eni-Nigeria, Loggia Ungheria, arrivarono clamorosi errori giudiziari, solo ad esempio ricordo Giuseppe Gullotta, Paolo Melis, Beniamino Zuncheddu, arrivarono le statistiche sulle riparazioni per l’ingiusta detenzione, circa tre al giorno negli ultimi dieci anni, ma tutto restò ancora come prima: centralità di indagini non garantite e inconsistenza dibattimentale, affettuosa colleganza tra giudicante e requirente, carriera unica asseritamente per potersi difendere da quei furbacchioni che vorrebbero usare la separazione delle carriere come grimaldello per sottoporre poi il pm all’esecutivo (eterno leitmotiv di chi è privo di argomenti seri e si accontenta di processare le intenzioni, che peraltro non trova alcuna corrispondenza… nella storia del mondo).

Infine, alleluia alleluia, è arrivato il ministro Nordio e l’agognata riforma della separazione delle carriere è parsa cosa fatta! Siamo in dirittura di arrivo, verrà accolto come un liberatore dalle incongruenze, dalle disfunzioni, dall’immobilismo, dalle lapidazioni mediatiche, ho ingenuamente pensato tutte le mattine appena aperti gli occhi. Perché il Guardasigilli è un serio liberale che non dimentica la parola data, perché ha subito sciorinato i suoi progetti di riforma del sistema giustizia, a partire dalla non negoziabile separazione delle carriere – non negoziabile, così ha detto ripetutamente – e da un forte scossone ai tempi processuali, in quanto si sa che procedimenti imbalsamati per anni costituiscono nient’altro che denegata giustizia. Mi aspettavo solo ovazioni ma non le ho sentite. Molte le critiche per la ventilata abolizione dell’abuso d’ufficio, nonostante la pervicacia con cui la giurisprudenza ha usato tutti i sistemi, da sempre, per frustrare i ripetuti tentativi di tipizzazione fatti dal legislatore, perfino cercando di ampliarne l’oggetto con un inaudito richiamo all’articolo 97 della Costituzione, ma questa è un’altra storia.

Mi aspettavo ovazioni, visto quello che pare un grave e consolidato stato di dissesto della nostra giustizia, e invece incredibilmente l’Anm ancora una volta ha espresso intransigente contrarietà alla separazione delle carriere nella mozione finale 12 maggio 2024 del 36° Congresso di Palermo. Ogni persona dovrebbe leggerla, codesta mozione, per capire quali sono i veri problemi della giustizia, quale è l’attuale gradiente del suo distacco dalla realtà, come funzionano i mulini a vento e così via. Ad esempio, udite udite, potrà rilevare che, nella a dir poco drammatica situazione di perniciosa lentezza in cui versa, vicina allo stallo, nulla dice sul come e cosa modificare per un miglioramento ma, anzi, difende quell’esistente malato esemplarmente disfunzionale con assoluta intransigenza. Rassicurando, mah, che non demanderanno nulla all’intelligenza artificiale. Aggiungendo, di primo acchito in difformità dai dati statistici più volte pubblicati ma poi si precisa che il riferimento è “al prezzo di sangue” pagato per fortuna tanto tempo fa, che la magistratura gode di credibilità e di fiducia presso i cittadini. Tace invece sui grossolani errori giudiziari che si palesano dopo anni di calvario, sui plateali abusi istruttori tipo quello perpetrato nel processo Eni-Nigeria, sui pm che si innamorano delle proprie fantasie e continuano all’infinito per non dover rendere conto, sulle guerre ai fenomeni… nessuna parola se non la rivendicazione di libertà di interpretazione e di autonomia ed indipendenza, incomprensibile visto che si tratta di valori condivisi da tutti. Sta di fatto – non possiamo non tentare di consolarci – che la nomina del guardasigilli Nordio è comunque servita, anche alla luce degli argomenti di chi gli si oppone, a fare chiarezza su tante cose. Esempio, che non tutti si rendono conto che, sostituendo radicalmente nel 1988 il vecchio codice inquisitorio con quello tendenzialmente accusatorio, tutto ci si poteva aspettare ma non l’inaccettabile sgorbio di un sistema giustizia zoppo che entra continuamente in risonanza e denega qualsiasi risposta. E dunque che molti auspicano che il vigente sistema giustizia resti così come è. E dunque che molti pensano che nel nostro paese la giustizia funziona soddisfacentemente, anche perché i nostri pm, grazie a Dio e all’unicità di carriera, si avvantaggiano della cultura della giurisdizione.

Ma come è possibile? E gli errori ed orrori sopra ricordati da dove saltano fuori? E le misure cautelari e quelle di sicurezza che guadagnano sempre più terreno sul processo perché le sentenze definitive non arrivano mai? E le indagini preliminari che durano anni senza che sia effettuato un atto garantito? E la lentezza, con legge Pinto tanto al quadrato da aver imposto l’art. 55 del DL n. 83 del 2012, che ci ha reso famosi nel mondo? E le veline che, passate ai media da chi incolpa, massacrano per l’eternità con efficacia immediata? Incredibile la radicale opposizione a Nordio, un ministro che, come tutte le persone dabbene, desidera che la giustizia funzioni e torni a essere autorevole. Un ministro che finalmente, cercando di aiutare un sistema giustizia strutturalmente disfunzionale partendo dalle fondamenta, intende solo allinearsi al resto del mondo eliminando errori e omissioni. La sua determinazione nel voler separare le carriere fa sperare, il pregresso rapporto di colleganza fa pensare che l’Ordine non riuscirà a intimidirlo, supererà il lutto della mancanza di ovazioni perché non pare… del tutto sprovveduto. È però palese che, se si dovesse perdere questa felice occasione congiunturale, si rischierebbe di restare tra i paesi “impresentabili” per le prossime due o forse tre generazioni, con buona pace per figli, nipoti e discendenti.

Mi sono sempre chiesto perché nella magistratura prosperasse una così forte e ostinata opposizione alla separazione delle carriere, “responsabilità più leggera se condivisa” diceva un vecchio procuratore della Repubblica mio caro amico e soggiungeva “ma anche questione di archetipi, una cosa è Salomone una cosa è un minestrone”. Non ho mai ben capito che cosa intendesse.

Il Foglio

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