Uno dei decreti attuativi più importanti della riforma della pubblica amministrazione è senza dubbio quello sulla dirigenza pubblica. Si tratta di un testo molto atteso perché mira a cambiare radicalmente le regole e i meccanismi di selezione dei dirigenti nel settore pubblico. E, pertanto, rappresenta un pezzo importante di quella che il governo ha definito “la madre di tutte le riforme” dal momento che, secondo le valutazioni ufficiali, dovrebbe far crescere il prodotto interno lordo di quasi un punto percentuale nel prossimo quinquennio: un impatto assai rilevante in un periodo in cui la crescita economica fatica a decollare.
La bozza che circola in queste ore è destinata a far discutere perché rischia di applicare alla dirigenza pubblica un metodo – se possibile – ancor peggiore rispetto a quello utilizzato in Rai, tanto per fare un esempio recente: ad un elevato grado di politicizzazione delle nomine si aggiungerebbe, infatti, la totale deresponsabilizzazione di chi le fa. Vediamo in dettaglio perché.
La riforma prevede essenzialmente tre grandi novità: l’introduzione del ruolo unico dei dirigenti (e, quindi, niente più distinzione tra prima e seconda fascia), l’istituzione di una Commissione di esperti scelti dalla politica con il compito di valutare e assegnare gli incarichi (della durata di quattro anni, prorogabili solo per altri due) e, infine, per chi non ha ottenuto un incarico, la decurtazione dello stipendio (la parte accessoria) e l’eventuale licenziamento (dopo 6 anni) se non accetta la retrocessione a funzionario. Le suddette modifiche sollevano diverse perplessità perché privano l’impianto attuale di un sistema di valutazioni corrette, di incentivi adeguati e, infine, di sanzioni appropriate. Andiamo per ordine.
Le valutazioni. I componenti della Commissione svolgeranno un ruolo di primaria importanza perché dovranno elaborare la rosa di dirigenti a cui proporre il rinnovo dell’incarico. C’è da chiedersi, pertanto, quale sia la loro effettiva capacità di misurare l’operato dei dipendenti pubblici in assenza di una conoscenza “sul campo” come, invece, potrebbe avere chi è interno all’amministrazione. E, soprattutto quale sia il grado di indipendenza dalla politica che li ha selezionati (con quali criteri?).
Gli incentivi. Con il nuovo meccanismo di attribuzione degli incarichi, il rischio di un rafforzamento del legame tra la politica e la pubblica amministrazione è concreto. I dirigenti in attesa del rinnovo avranno, infatti, come primo obiettivo quello di cercare il plauso della Commissione piuttosto che dei loro diretti superiori. Anche perché, la mancanza di un incarico protratta nel tempo prevede la riduzione dello stipendio e la retrocessione a funzionario, che altro non significa che lavorare “alla pari” con chi si è precedentemente “diretto” in qualità di dirigente (difficile, tra l’altro, immaginare che un simile meccanismo possa incrementare l’efficienza della macchina pubblica). Ciò potrebbe creare un disincentivo a svolgere il proprio lavoro in modo imparziale. Pertanto, il risultato ultimo potrebbe essere quello di una maggiore politicizzazione della pubblica amministrazione, con la consueta spartizione delle nomine, esattamente come avviene in Rai.
Con il “Metodo Rai”, tuttavia, vi è una sostanziale differenza e qui si arriva al terzo punto, quello delle sanzioni. Il decreto non prevede nessuno tipo di sanzioni nel caso di errori di valutazione da parte della Commissione. In Rai, la responsabilità delle nomine è in capo al Direttore Generale e al consiglio di amministrazione: se sbagliano, è colpa loro (almeno sulla carta, dovrebbe funzionare in questo modo). Nel caso della riforma della dirigenza, invece, i membri della Commissione non rischiano nulla: non sono sanzionabili perché non sono chiare le responsabilità.
Peraltro, la deresponsabilizzazione dei valutatori viene accentuata dalla mancanza di un sistema di remunerazione. Il testo (per ora provvisorio) prevede, infatti, che i componenti della Commissione eseguano il loro compito in modo gratuito.
Attribuire un ruolo di rilievo all’interno della pubblica amministrazione senza erogare un corrispettivo economico è diventata una prassi a cui l’esecutivo fa spesso ricorso. Basti pensare che in seguito alla riforma costituzionale, i consiglieri regionali e comunali non saranno pagati per il lavoro svolto in qualità di senatori. Ciò può, forse, essere giustificato dal tentativo di rincorre le sirene populiste. In questo modo, però, si rischia di avvalorare il detto inglese “if you pay peanuts, then you get monkeys”.
Veronica De Romanis, Il Foglio dell’11 agosto 2016