La virata illiberale della nostra democrazia

La virata illiberale della nostra democrazia

Ho letto con interesse e condivisione la riflessione del Presidente della Fondazione Einaudi, avv. Giuseppe Benedetto, che ha provato a portare l’attenzione su un tema che l’epidemia ancora in corso ha oscurato, ma che sarà presto destinato a monopolizzare l’attenzione, non appena le sirene elettorali torneranno a farsi sentire.

Nella prima Repubblica, la selezione naturale portava in Parlamento e al governo persone che avevano in qualche modo dimostrato sul campo, nella loro pregressa attività (politica, amministrativa, sindacale, professionale, imprenditoriale) una qualche “capacità politica”, della quale erano primi giudici i compagni o gli amici di partito che li proponevano ai cittadini, e poi, in definitiva, gli elettori, che potevano accettare quelle proposte ma anche bocciarle.

Nel momento in cui oggi si arriva in Parlamento, e poi anche al governo, per nomina dall’alto, e non per progressiva legittimazione dal basso, ecco che quella capacità genericamente politica, che pure qualcuno continua ad avere, si trasforma naturalmente in mera fedeltà personale al leader che lo ha prima nominato o, nel dubbio sulla rinomina, a quello che potrà rinominarlo in futuro: il trasformismo degli ultimi decenni non è altro che la dimostrazione di questa deteriore pratica politica, che consente a molti di mettere in discussione lo stesso sistema parlamentare, cominciando dalla sua essenziale prerogativa che è la libertà di mandato.

Il fatto è che sistema politico e metodo elettorale s’influenzano a vicenda, nel senso che un sistema politico senza veri partiti basato essenzialmente sui leader determina un metodo elettorale basato sulla cooptazione e sulla nomina e, a sua volta, un metodo elettorale di questo tipo determina un sistema politico leaderistico e, in definitiva, chi più chi meno, di tipo populista se non plebiscitario.

E i leader, li abbiamo visti alla prova, nella migliore delle ipotesi, scelgono personaggi ritenuti o di qualche utilità mediatica, e, nella peggiore, quelli ritenuti più congeniali ai loro personali interessi, mentre la risposta elettorale dei cittadini finisce per essere quella che sistema politico e metodo elettorale consentono che sia, posto che la stessa persona, nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, vota diversamente a seconda che vi sia un sistema politico (e un metodo elettorale) ovvero un altro.

Quanto al metodo delle cosiddette primarie aperte (nel migliore dei casi) o dei click sulla tastiera (nel peggiore) non potrà mai sortire gli effetti virtuosi che possono derivare da una lunga selezione di base attraverso anni di attività nella vita civile e nelle istituzioni. Qualche eccezione è possibile in qualche partito più strutturato, in cui la specificità locale o nazionale continua ad avere qualche residuale valenza; quel che è certo è che di fare scegliere agli elettori i loro rappresentanti, come sarebbe giusto, non si parla proprio.

Quando ha pensato a un buon metodo di selezione del personale politico, a Benedetto, liberale, ma anche da Presidente della Fondazione Einaudi, è venuto naturale prendere le mosse dal sistema del doppio voto per candidati in collegi uninominali con ballottaggio in unico turno, che la Fondazione ha illustrato in una sua recente pubblicazione, rievocando quello proposto da Luigi Einaudi nello Scrittoio del Presidente del 1953, e per il quale ciascun elettore esprime due voti (uno principale e uno suppletivo) per due diversi candidati uninominali; un metodo da tempo in uso in alcuni paesi anglosassoni e che viene utilizzato per eleggere il sindaco di Londra.

Se all’esito dello scrutinio, un candidato ottiene la maggioranza assoluta col conteggio dei voti principali (first choise), viene senz’altro proclamato eletto; altrimenti si ricorre a un ballottaggio istantaneo tra i primi due, aggiungendo ai rispettivi primi voti i secondi voti, quelli suppletivi (second choise) e, all’esito del conteggio, viene proclamato eletto quello dei due che abbia totalizzato la maggior somma tra primi e secondi voti, pur senza raggiungere la maggioranza assoluta; insomma, nel primo caso, viene eletto il più gradito alla maggioranza assoluta degli elettori, nel secondo quello meno sgradito; e si evita il ballottaggio in doppio turno, che talvolta può generare accordi non trasparenti, e sempre provoca astensionismo di massa.

Chiaramente, anche questa di Einaudi è rimasta come una delle sue tante “prediche inutili”, per cui, se proprio si vuole continuare a ignorarlo, penso che il sistema migliore (insieme proporzionale e selettivo, ma senza ricorrere alle preferenze) potrebbe essere quello già in uso per il Senato sino al 1992, su cui proprio nei giorni scorsi è tornato il prof. Gaetano Azzariti nell’ultimo “liber amicorum”, riflettendo criticamente sulla proposta di legge elettorale che l’attuale maggioranza parlamentare si appresta a varare. E tuttavia, sia in questa prospettiva, che mi sembra preferibile, sia in quella dell’attuale maggioranza, ci sono dei problemi a monte, che rimarrebbero irrisolti se non affrontati, come pare non ci sia alcuna voglia di fare.

Ne cito solo alcuni:

1) le chiusure corporative dei partiti che sono già in Parlamento (gli insider), che non devono raccogliere firme e quindi possono fare le liste anche all’ultimo momento, quando invece chi ne è fuori (gli outsider) sono costretti a raccoglierne in tempi brevissimi decine di migliaia su liste compilate in partenza e immodificabili, salvo pasticci di cui hanno fatto le spese i 5 Stelle palermitani.

2) la difficoltà di finanziamento, specie dopo la legge 3-2019, che di fatto favorisce chi ha gruppi parlamentari numerosi (ancora una volta gli insider), mentre le nuove formazioni politiche sono costrette a ricorrere a mini contributi attraverso improbabili fund raising.

3) i privilegi mediatici di cui godono sempre gli stessi, cioè quelli che ci sono già, lasciando agli altri irrilevanti spazi di tribuna.

Insomma, il nostro, a prescindere dal metodo elettorale, è un sistema politico bloccato, tendenzialmente autoreferenziale, che, unito al leaderismo di tutti e al populismo di molti, si avvia a diventare sostanzialmente illiberale, senza darlo a vedere.
Se questa discussione servirà a smuovere qualche coscienza anche in questo Parlamento, se ne gioverà la democrazia parlamentare, anche se tutto mi fa pensare che è proprio questa a essere nel mirino di tutti quelli che oggi contano qualcosa.

Pubblicato da Formiche.net

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