Tratto da La Stampa, 16 maggio 2016 – Alle elezioni amministrative d’ inizio giugno la destra italiana si gioca un pezzo di futuro nei due laboratori contrapposti di Roma e Milano.
A Roma la competizione fra Marchini e Meloni servirà a regolare i rapporti di forza tra centro destra moderato e destra sovranista nel caso in cui, alle future elezioni politiche, la frattura fra i due schieramenti dovesse ricomporsi. A Milano invece Stefano Parisi, candidato unitario, indicherà che probabilità di vittoria potrebbe avere quell’ alleanza se si ricomponesse.
La scissione fra destra e centro destra non è un dato contingente né soltanto italiano, ma dipende da fattori demografici, economici e psicologici profondi, ed è visibile in tutto l’ Occidente. Proprio per ciò l’ assenza di quella scissione fa notizia più della sua presenza – Milano più di Roma. L’ esempio milanese mostra come la frattura possa essere sanata. E se Parisi dovesse andar bene, o magari addirittura vincere, potrebbe anche mostrare che sanarla conviene a entrambe le destre. Il capoluogo lombardo diverrebbe così un modello in Italia, e per certi versi perfino al di là dei confini nazionali.
Milano ha già fatto da laboratorio politico venticinque anni fa: settentrionali le leghe, milanese Mani Pulite, lombardo il berlusconismo. Né il laboratorio si limitò a rimanere tale: in Lombardia è nato l’ asse Berlusconi-Bossi che, con la breve interruzione del 2006-2008, ha guidato l’ Italia per un’ intera decade, dal 2001 al 2011. Quell’ asse, tuttavia, non è riuscito a ottenere i risultati che si proponeva di raggiungere. Non ha riscritto le regole del gioco, perché la sua riforma costituzionale è stata bocciata al referendum del 2006. Non ha adeguato l’ economia italiana alle sfide europee e internazionali. Più in generale, non ha saputo prendere le misure al resto del Paese. E così, invece di guidarlo, ne ha subito i ritardi, le resistenze e le paure.
Il 2011 ha segnato la fine del «progetto nordista». E l’ ultimo lustro ha proiettato l’ Italia in uno scenario politico del tutto diverso da quello del primo decennio del secolo: l’ ascesa del Movimento 5 stelle, la mutazione renziana del Partito democratico, la metamorfosi sovranista della Lega di Salvini. La stagione dell’ asse Berlusconi-Bossi, tuttavia, ha lasciato un’ eredità non da poco: la Lombardia amministrata dal leghista Maroni, il Veneto dal leghista Zaia. Pur mutando pelle, insomma, la Lega ha saputo salvaguardare la propria tradizione di governo. Una tradizione che la rende assai diversa dai partiti sovranisti non italiani, confinati quasi ovunque all’ opposizione anche a livello locale.
L’ esistenza di una Lega di governo accanto a quella di lotta, dunque, è un primo fattore che può spiegare l’«anomalia» milanese, e che al contempo la rende interessante. Per affrontare il secondo fattore – che è la stessa città di Milano – dobbiamo allargare un po’ il campo di osservazione.
I partiti della destra sovranista nascono e prosperano nello spazio sempre maggiore che separa il linguaggio dell’ establishment da quello degli elettori, e nella conseguente incapacità del ceto politico di rispondere alle richieste – per certi versi, perfino, di considerare legittime le richieste – che con ansia crescente salgono dall’ elettorato. Allo stesso tempo, le risposte che dà la destra sovranista – le ruspe di Salvini – servono a dar sfogo a paura, rabbia e frustrazione ben più che a risolvere davvero i problemi. Il discorso pubblico si polarizza così fra il politicamente corretto e il radicalismo parolaio, fra l’«accogliamoli tutti» e il «buttiamoli a mare», fra il rifiuto di vedere che l’ immigrazione è davvero un problema per la sicurezza, e la persuasione xenofoba che qualsiasi immigrato rappresenti di per sé una minaccia letale.
Questa polarizzazione, oltre a essere perniciosa in generale, rappresenta l’ ostacolo più serio alla ricostruzione d’ uno schieramento unitario che tenga insieme il centro destra moderato e la destra sovranista. La conciliazione – o meglio, data la storia italiana degli ultimi venticinque anni, la ri-conciliazione – fra destra e centro destra può avvenire soltanto sul terreno mediano del senso comune.
Un terreno sul quale non trovano cittadinanza le ruspe, ma neppure il rifiuto di vedere che l’ ansia di difendere la propria sicurezza e il proprio benessere, spesso modesto, non è necessariamente figlia né di fascismo muscolare né di egoismo sociale.
Ora, se c’ è una città in Italia dove quel senso comune ha una tradizione, questa è proprio Milano. Con la sua storia di moderatismo politico ma anche di solidarietà sociale. Col suo empirismo. Con la sua capacità – che Roma sembra aver perduto per sempre – di credere ancora che le cose, pazientemente e pragmaticamente, si possano cambiare in meglio. Una città nella quale non per caso Stefano Parisi sta facendo una campagna elettorale dai toni moderati, che si differenzia però da quella del contendente democratico Beppe Sala proprio per l’ enfasi cruciale sulla sicurezza.
Se si ricompattasse intorno al senso comune e all’ esempio milanese, la destra saprebbe rispondere alla concorrenza del Movimento 5 stelle, che prospera anch’ esso nello spazio fra l’ establishment e i cittadini qualunque. E potrebbe reggere il confronto con Renzi, che a suo modo attinge pure lui al senso comune – quello delle «cose che vanno fatte» -, anche se il suo è un senso comune più spostato sul versante del politicamente corretto e ha toni toscani ben più aspri di quelli lombardi. Nazionalizzare un’ esperienza settentrionale, certo, non sarebbe affatto facile: come abbiamo visto, l’ operazione già è stata tentata una volta, ma non ha avuto successo. Per farla funzionare ci vorrebbe un grande leader politico.
Che non abbia ottant’ anni e non appartenga a un’ altra stagione, come Berlusconi.
Ma non guidi neppure le ruspe, come Salvini.

Share