Anche se purtroppo non se ne vede ancora alcun segno, è indispensabile che la parte migliore della società meridionale, quella che vuole restare ancorata alla modernità, si faccia sentire con voce forte e chiara. È necessario che essa reagisca contro coloro che oggi pretendono di guidare l’intero Sud, di monopolizzarne la rappresentanza.
Se non ci sarà quella reazione, il rischio è che questo 2019 venga ricordato dagli storici del futuro come un anno di svolta: l’anno in cui subisce una decisa accelerazione l’allontanamento, giunti a questo punto, forse, irreversibile, del Nord (del Centro Nord) dal Sud, l’anno che prepara fortissime tensioni lungo il crinale, geografico, economico e culturale, che, dall’unità d’Italia ad oggi, separa le due parti del Paese. Il no alla Tav, il no alle trivelle al largo della Puglia, il reddito di cittadinanza, rappresentano una «tripletta» micidiale, tanto dal punto di vista pratico che da quello simbolico.
Il no alla Tav dei 5Stelle (ossia del partito oggi maggioritario nel Mezzogiorno) significa: il Sud che noi rappresentiamo è contrario a qualunque cosa possa favorire l’ulteriore sviluppo economico della comunità nazionale, Nord incluso.
Il no alle trivelle significa: gli idrocarburi non sono una risorsa al servizio del Paese, sono una cosa sulle cui sorti solo noi locali abbiamo il potere e il diritto di decisione (è roba mia e me la gestisco io).
Il reddito di cittadinanza significa: a noi non interessa che il Sud attiri investimenti (l’odiato capitale) creando così posti di lavoro e sviluppo, ci interessa solo che si drenino risorse al Nord per fornirci assistenza. Il messaggio che deriva dalla suddetta «tripletta» è il seguente: il contributo che noi vogliamo dare allo sviluppo dell’Italia è uguale a zero. In compenso, voi che vivete nella parte del Paese ricca e produttiva (o, più precisamente, ricca perché produttiva) siete per noi una mucca da mungere.
Contrariamente a ciò che pensano diverse persone del Nord (che non conoscono il Sud) non è per nulla vero che tutta la società meridionale la pensi in questo modo o approvi questi atteggiamenti. Non è vero che tutto il Sud si sia arruolato, armi e bagagli, nel partito anti-industriale. Ma è un fatto che se la parte del Sud che «non ci sta» non si organizza e non cerca di stringere alleanze con il Nord del Paese, saranno guai per tutti. Si inganna chi crede che il problema ormai non si ponga più poiché la tentazione secessionista si è esaurita da tempo, da quando è tramontata la leadership di Umberto Bossi sulla Lega. Nel momento in cui il governo giallo-verde cadrà, verrà meno il luogo in cui si scaricano le tensioni , si media e si fanno compromessi fra le opposte esigenze delle varie parti del Paese. Il problema forse non si porrebbe solo se si verificasse quanto alcuni prevedono, ossia un vero e proprio «sfondamento» elettorale della Lega di Salvini nel Sud. In tal caso, secondo queste previsioni, si ricostituirebbe un partito «nazionale» in grado di tenere insieme, elettoralmente e politicamente, il Nord e il Sud. Chi scrive però dubita che questo possa davvero accadere: nemmeno la politica nazional-sovranista di Salvini può riuscire a cancellare del tutto l’imprinting «nordista» del leghismo.
È in queste condizioni, proprio oggi, in una delle fasi più cupe della storia dei rapporti fra Nord e Sud dopo l’Unificazione, che è stato messo in moto un processo che potrebbe essere, a seconda delle circostanze che prevarranno, foriero di conseguenze positive oppure negative. Mi riferisco alla richiesta di autonomia (in base all’articolo 116 della Costituzione) rivendicata con forza, e sostenuta da referendum popolari, dalla Lombardia e dal Veneto e, in modo solo un po’ più morbido, dall’Emilia- Romagna. Ci sono pochi dubbi sul fatto che le altre regioni del Nord, e forse anche alcune del Centro, aspettino di vedere che cosa ne sarà di quelle iniziative. Se esse andranno in porto con soddisfazione per le regioni coinvolte, ciò metterà sicuramente in moto una valanga di nuove richieste. All’inizio non cambierebbe molto nell’attuale distribuzione di risorse fra Nord e Sud. Le regioni coinvolte potrebbero gestire direttamente una serie di competenze omettendo di trasferire allo Stato centrale solo quella parte del gettito fiscale che serve a coprire le spese che già attualmente si fanno. In una seconda fase, però, la musica cambierebbe. Per fare un solo esempio, è previsto che, prima o poi, si impongano «costi standard» per uniformare, sull’intero territorio nazionale, la spesa per i servizi. In quel momento, la ridistribuzione di risorse a favore delle regioni del Nord si farebbe sicuramente sentire. La famosa siringa, che oggi costa, mediamente, una certa cifra al Nord e quella cifra «più X» al Sud, costerebbe ovunque allo stesso modo. È chiaro a tutti quale sarebbe il vantaggio per la finanza pubblica. Forse non è altrettanto chiaro a tutti quale ne sarebbe, nel Mezzogiorno, il costo politico.
Al Sud si parla già di «secessione dei ricchi». Per questo i 5Stelle sono contrari anche se il governo, pressato dalla Lega, dovrà, entro poco tempo, soddisfare la richiesta di autonomia o tentare di bloccarla. Forse, come ha scritto Michele Salvati (Corriere, 11 gennaio), ci sarà uno scambio, assai poco virtuoso, fra la richiesta di autonomia fiscale delle regioni del Nord e il reddito di cittadinanza. O forse sarà proprio l’eventuale intrattabilità della questione dell’autonomia regionale a determinare la caduta del governo.
In ogni caso, anche questa vicenda chiarisce che i rapporti fra Nord e Sud saranno assai diversi a seconda di chi guiderà le varie aree del Paese e con quali idee e prospettive. Senza una nuova alleanza per lo sviluppo fra Nord e Sud che sconfigga il blocco anti-industriale e improduttivo, oggi politicamente vincente, difficilmente l’Italia tornerà ad essere ciò che pure è stata (come ricordava Salvati) nei momenti più felici della sua storia: una comunità.
Angelo Panebianco, Corriere della Sera 15 gennaio 2019