“L’uomo moralmente libero sfida il tiranno dal fondo della galera o cammina dritto verso la catasta di legna sulla quale verrà bruciato vivo per voler tener fede alla sua credenza”. Lo ha scritto negli anni del Fascismo Luigi Einaudi, lo stanno facendo oggi le donne e gli uomini ucraini. E la cosa ci riguarda. Ci riguarda direttamente.
Vladimir Putin non ha dichiarato guerra all’Ucraina in quanto tale: ha dichiarato guerra all’Occidente e ai valori liberali e democratici che reggono la nostra convivenza e su cui si fonda la nostra civiltà. Valori che il popolo ucraino ha la colpa di aver liberamente scelto.
Valori “obsoleti”, ha detto nel giugno del 2019 l’autocrate di Mosca intervistato dal Financial Times. Valori che ispirano un ordine geopolitico da lui rigettato platealmente in occasione della Conferenza di Monaco del 2007.
Sulla “catasta di legna”, dunque, sfidano fisicamente le fiamme i militari e i civili ucraini, ma a finire irrimediabilmente in cenere rischiano di essere i nostri principi, la nostra identità, il nostro onore. Il popolo ucraino uscirà rafforzato da questa terribile prova, noi che ucraini non siamo potremmo esserne annientati. Noi italiani, noi europei, noi occidentali non ucraini. Noi che possiamo permetterci il lusso di ritenere che quella guerra non ci riguardi.
Portare in Ucraina gli scritti del padre riconosciuto del pensiero liberale ed europeista ha perciò un alto valore simbolico e una concreta funzione pratica. Simboleggia le ragioni profonde per cui questa guerra è la nostra guerra; indica nel metodo e nei principi liberali la bussola per orientare, oggi, il sistema delle alleanze internazionali e, domani, il sistema pubblico ucraino in vista della ricostruzione materiale, morale e giuridica del Paese.
Simbolo e metodo non sono meno utili a noi non ucraini: ci richiamano alla nostra identità e ai nostri valori. Ci ricordano chi siamo, in cosa crediamo, chi sono i nostri amici naturali e chi i nostri naturali nemici. È per questi motivi che la Fondazione Luigi Einaudi ha accettato con entusiasmo e orgoglio di partecipare al progetto “Einaudi in Ucraina”: perché la fiamma di questo conflitto illumina le ragioni profonde su cui si basa la nostra convivenza civile. È un monito, un memento. L’occasione che la Storia ci offre per dare valore e sostanza politica all’Europa e ai principi liberali che ne costituiscono le fondamenta.
Luigi Einaudi è stato un profeta. Vaticinò come inevitabile lo sbocco liberal-democratico dell’Italia quando il Fascismo ancora sembrava invincibile; lavorò alla struttura dello Stato democratico, pluralista e liberale quando il Regime ancora anelava all’eternità; previde l’unità dell’Europa quando gli stati europei dovevano ancora sfidarsi a morte nella Prima e poi nella Seconda Guerra mondiale.
Non fu utopia, la sua. Fu fiducia: fiducia nell’uomo e nel suo incomprimibile desiderio di libertà, di giustizia, di elevazione materiale e morale. È su questa lucidissima convinzione che si fonda il pensiero einaudiano. Un pensiero profondamente pragmatico e irriducibilmente realista. Un pensiero che nasce nell’alveo della tecnica economica, che si completa sul terreno della pratica politica e che si eleva in tutta la sua magnifica e ossuta potenza nella dimensione istituzionale. L’economista, l’uomo politico, il padre costituente, il governatore della Banca d’Italia, il presidente della Repubblica: cinque facce, complementari, della stessa personalità. Una personalità, quella di Luigi Einaudi, incessantemente posta al servizio dell’ideale liberale. Della persona, dunque. E del suo pieno diritto a realizzarsi senza ostacoli né privilegi.
Di qui la sua inflessibile guerra ai monopoli (“radice del male e del danno sociale”), alle rendite di posizione, ai latifondi e ai protezionismi. Di qui la sua pervicace battaglia in favore di una società aperta e concorrenziale, di una conoscenza accessibile a tutti, e dunque di un’istruzione gratuita dagli asili alle università (“vitto, alloggio, assistenza sanitaria, libri…”), e di un’informazione responsabile oltre che convintamente pluralista. Le condizioni di partenza devono essere “pari” per ciascuno ed è compito dello Stato assicurare che così sia nella realtà. La possibilità, non il diritto, di progredire socialmente e culturalmente deve essere concretamente garantita a ciascuno. Nelle “Lezioni di politica sociale” Einaudi lo scrive chiaramente: “A tutti gli esseri viventi in una società civile deve essere data la possibilità di elevarsi da in minimo tenore di vita verso l’alto. Possibilità non equivale a diritto. Questo è un concetto giuridico, di cui il contenuto è assai incerto… Possibilità è invece una situazione di fatto alla quale si può giungere per molte vie diverse”. Vie che compete allo Stato aprire.
Luigi Einaudi, infatti, non era un liberista. Lo Stato deve agire, ma deve agire per rimuovere gli ostacoli materiali, sociali e burocratici che impediscono alla persona di mettere pienamente a frutto le proprie qualità e di realizzare se stessa. Uno Stato che libera, non uno Stato che indirizza e che opprime. Uno Stato che crea le condizioni sociali e di mercato congeniali al libero perseguimento del benessere materiale e spirituale di ciascun proprio cittadino sulla base di conoscenze certe e attraverso regole condivise. “Conoscere, poi dibattere, poi deliberare” è stato l’ordine naturale del processo decisionale sancito da Luigi Einaudi e di conseguenza divenuto Codice essenziale del metodo liberale.
Non era un calvinista, Einaudi. L’uomo può realizzarsi nel lavoro, ma non è il lavoro a realizzare l’uomo. La produzione è condizione dell’economia, ma non è nel possesso che si esaurisce l’esperienza umana. “La sostanza dell’economia di mercato – scriveva Einaudi – non sta nel rendere schiavi gli uomini delle cose, sì nell’opposto concetto di liberare gli uomini dalla schiavitù di lavorare così duramente come prima per ottenere la stessa quantità di cose”.
La sua era una dimensione quasi spirituale, di sicuro antimaterialistica: contro “il culto del numero” e “l’adorazione della quantità”, Luigi Einaudi più volte se la prese con chi “innalza ad ideale supremo la realtà economica”. La produttività non è un fine in sé, scriveva. Il fine è la liberazione dell’uomo. L’uomo in sé.
Si fidava dell’uomo, Einaudi, ma diffidava degli Stati, ben conoscendone la naturale tendenza ad allungare le mani sulle società e a farsi la guerra tra loro. Perciò teorizzava un grado di interconnessione economica che rendesse l’uomo libero e gli stati inoffensivi. “Se gli uomini di stato non troveranno la formula mediatrice tra le piccole patrie spirituali e l’unità del mondo economico, le prime e non la seconda, saranno distrutte”, ammoniva. E spinto da una vibrante carica di umanesimo risorgimentale ammantava di romanticismo anche i più affilati dei suoi pensieri: “Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi ad informare la propria condotta all’ideale della libertà? Forse è utopia. Ma ormai la scelta è soltanto tra l’utopia e la morte, tra l’utopia e la legge della giungla”. Parole più attuali che mai.
È perseguendo ad occhi aperti e mente limpida questa sublime utopia che oggi milioni di uomini e donne ucraine moralmente liberi sfidano il tiranno camminando dritto verso la catasta di legna sulla quale verranno bruciati vivi se altri uomini e altre donne a loro uguali per fattezze e convinzioni non li aiuteranno a spegnere il fuoco, a respingere l’invasore e a ricostruire il villaggio secondo le regole e i principi che gli appartengono e che li accomunano. I principi della libertà e della democrazia. Così avrebbe detto, fosse vissuto oggi, Luigi Einaudi, passato alla Storia in Italia come il “Presidente della Ricostruzione”. Una definizione che ben si attaglia al futuro dell’Ucraina.