Lavoro, produttività e globalizzazione: nel saggio “I problemi economici della federazione europea”, Luigi Einaudi, con pagine mirabili, delinea analisi e ricette su argomenti di grande attualità
Gli spilli di Adam Smith e gli alberi di Einaudi
Adam Smith aveva esposto la teoria dello sviluppo della divisione del lavoro facendo riferimento alla produzione di spilli. Einaudi, con pari maestria ed eleganza maggiore, la presenta con riguardo a “quel fattore semplicissimo della produzione che si chiama albero a frutta, sia pesco o melo o pero”.
Il ragionamento è svolto in tre fasi: in un primo tempo, quando c’è solo un ristretto mercato locale, vediamo l’albero “a pieno vento, situato dove il buon Dio aveva fatto cadere e fecondare il seme […] il contadino lo lasciava venir su alla ventura […] e quel che non marciva caduto per terra o non si metteva in serbo per l’inverno per uso familiare, si portava in ceste o su carretti al mercato, vendendolo bene o male a seconda dell’accidentale abbondanza o scarsità della merce, presente quel giorno sul mercato. Il ricavo della frutta non contava nel bilancio dell’agricoltore. Era un di più”.
Ma ecco che si sviluppano le città e i mezzi di trasporto. Compaiono i mercanti di frutta, che vanno in campagna a chiedere il prodotto, per venderlo nei centri urbani. Così inizia il secondo tempo. “Un po’ per volta la scena cambia. I grandi alberi a pieno vento sparpagliati qua e là sono abbattuti […] L’albero cessa di essere tale, diventa nano, ad altezza d’uomo, regolato, costretto, deformato a spalliera […] Il contadino è diventato un artista; è andato a sentire le lezioni di potatura dal professore ambulante; possiede arnesi; maneggia pompe, irrora a tempo le gemme, le foglie, le bacche da frutta […] La raccolta medesima è addomesticata; si fa in tempi diversi, a poco a poco, in guisa di distaccare la frutta quando è il momento migliore per la spedizione. Nasce la divisione del lavoro”. L’agricoltore si specializza in due-tre qualità, forse solo una, scegliendo la più adatta al suo terreno e al suo clima, in base alle richieste. Il mercante passa a parecchie riprese per portare la frutta al mercato.
Ed ora ecco la terza fase. La frutta diventa la materia prima di una grande industria. “Sorgono laboratori e magazzini per la scelta, l’impaccatura, la messa in scatola e in ceste ben confezionate, la spedizione; per la destinazione di talune qualità a fabbriche di conserve, di marmellate […] Da quale causa è venuta la trasformazione? Dall’allargamento del mercato […] Oggi una famiglia di agricoltori può vivere bene attendendo ad una fatica interessante, attenta e intelligente, in un ettaro solo di terreno, là dove occorreva sfaticare in venti […] Si sarebbe ottenuto ciò senza l’allargamento del mercato?”.
È l’ampliamento del mercato che ha consentito al contadino di trasformarsi in frutticoltore specializzato, che ha dato luogo a “un ceto di mercanti raccoglitori altro di mercanti esportatori”. Senza l’ampliamento del mercato “non si sarebbero potute impiantare a scuole di frutticoltura, né da queste sarebbero potuti uscire i tecnici specializzati nella produzione di piantine delle qualità migliori […] e nell’insegnamento sul luogo delle pratiche di potatura e di medicazione delle piante”.
Mentre Adam Smith nel suo esempio dei benefici della divisione del lavoro tratta solo quella che ha luogo nel processo di produzione industriale, mediante la specializzazione nei singoli componenti dei prodotti, resa conveniente dall’ampliamento del mercato, in questo mirabile brano di Einaudi basato sull’albero da frutta noi troviamo un quadro assai più vasto: vi è la specializzazione fra le varie i produzioni agricole, la suddivisione del lavoro fra produzione agricola e processo di trasformazione industriale, vi è quella all’interno del ciclo industriale, vi è anche lo sviluppo del settore terziario, che si articola nelle varie fasi del commercio e nello sviluppo di servizi tecnologici di processo (la medicazione delle piantine, la deformazione degli alberi a spalliera per facilitare la raccolta dei frutti) e di prodotto (la selezione delle piantine migliori ai fini di un prodotto di buona qualità), e vi è, nell’articolazione del terziario, lo sviluppo dei servizi di formazione professionale.
Busto di Adam Smith appartenuto a Luigi Einaudi e fronte spizio della Ricchezza delle nazioni
Economia della conoscenza e globalizzazione per Einaudi
Emerge da queste pagine un altro dei connotati di grande attualità del pensiero di Einaudi: il rilevante ruolo che egli attribuisce al capitale umano e a quella che noi oggi denominiamo “economia della conoscenza”, Infatti, nel suo esempio, l’ampliamento del mercato rende conveniente l’adozione di o modalità produttive che fanno ricorso al progresso tecnologico e alla formazione professionale. Così i fattori produttivi che riguardano i beni immateriali della conoscenza e del capitale umano diventano una causa importante dello sviluppo economico. Ed è anche interessante rilevare, a questo proposito, a che, senza nominarle in modo espresso, Einaudi introduce nel ragionamento anche le “economie esterne” che l’adozione di queste o nuove tecniche, da parte di singole imprese, genera per le altre imprese, che hanno un posto molto rilevante nella teoria dei costi decrescenti dell’industria teorizzata da Alfred Marshall, di cui egli era stato attento studioso ed era sostanzialmente seguace. E queste economie esterne contribuiscono a rendere compatibile il regime di costi di produzione crescenti delle singole imprese, proprio del regime di concorrenza pura, con i costi decrescenti delle industrie e dei distretti produttivi.
Scrive infatti Einaudi che “l’esistenza di uno smercio sufficiente di prodotti fini, rendendone comune la conoscenza, divulgando i metodi per produrli, finisce alla lunga per diminuire i costi medesimi”. L’ampliamento del mercato, rendendo conveniente la divisione del lavoro, dà luogo allo sviluppo della specializzazione e all’adozione di nuove tecnologie da parte di singole imprese. Ciascuna impresa può imitare le altre, se trova che ciò riduce i costi e migliora la qualità dei prodotti. L’ampliamento del mercato comporta anche l’entrata in campo di un maggior numero d’imprese, e ciò accresce la concorrenza. Tramite questa, le riduzioni dei costi si trasferiscono ai consumatori: “La concorrenza, che con un mercato ampio è assai più arduo sopprimere o limitare che su un mercato ristretto, agisce e costringe i produttori a ridurre i prezzi al livello dei costi marginali”.
Nella teorica einaudiana dei mercati aperti, la concorrenza tendenzialmente non porta a un equilibrio stazionario, ma genera un processo dinamico di riduzione dei costi, tramite le innovazioni di processo e di prodotto, che sono incessantemente stimolate dall’esigenza di sostenere il livello dei profitti, continuamente erosi dai competitori che imitano gli innovatori.
I fattori per cui, per Einaudi, l’economia dei mercati globali è la più favorevole allo sviluppo economico, anzi la sola capace di assicurarlo in modo diffuso e duraturo, sono dunque due: da un lato la divisione del lavoro, che è funzione dell’ampiezza del mercato e quindi tanto più efficace quanto più questo è ampio; dall’altro la concorrenza, che si sviluppa tanto più quanto più è ampio il mercato, e che tanto meno facilmente può essere bloccata da interventi statali in favore d’interessi costituiti, quanto più ampia e composita è l’area su cui esso esercita la sua giurisdizione. Poiché il modello di mercato ottimale è quello mondiale, per Einaudi il modello ottimale di Stato, allo scopo di assistere il mercato nel processo di sviluppo economico, idealmente, dovrebbe essere quello mondiale. Tale Stato non è possibile, ma, comunque, lo Stato federale europeo, limitato ai Paesi dell’Europa occidentale continentale, attenzione, non è affatto un “punto di arrivo”, ma una tappa verso futuri sviluppi. E all’unificazione non ostano le diversità di lingua, religione, cultura degli Stati membri, perché il modello federalista deve essere concepito in modo da salvaguardarle, pur nell’ambito dei legami dettati dagli interessi economici e dalle istituzioni comuni.
“Tanto più gli uomini di ogni paese prospereranno sicuri della propria nazione e potranno perseguire ideali di civiltà, di cultura, di religione al di sopra e al di là dei puri interessi economici”.
Da parte degli avversari della globalizzazione si è spesso sostenuto che un sistema economico con un mercato più esteso di quelli di singole nazioni e, a fortiori, un sistema economico con un mercato mondiale sarebbero meno favorevoli alla concorrenza dei sistemi nazionali, in quanto potrebbero consentire l’affermazione tra imprese gigantesche e accordi fra grandi imprese. Si genererebbero concentrazioni di potere monopolistico capaci di dominare i singoli settori dell’industria, i commerci, la finanza. Le grandi imprese, favorite dal proprio potere economico, a mano a mano eliminerebbero le piccole sino a dominare su tutto il mercato. Il pesce grosso mangia il pesce piccolo; gli esseri più attrezzati nella lotta per la sopravvivenza eliminano gli altri e poi lottano fra di loro, sinché rimane solo il più possente.
Scrive Einaudi: “Si oppone da taluni a siffatta visione ottimistica degli effetti della federazione la probabilità che i grandi complessi industriali, ad esempio quelli della siderurgia della Ruhr e della Slesia, giovandosi delle loro dimensioni colossali e non più impediti dalle difese doganali possano a una a una distruggere le minori imprese preesistenti in i Italia, in Francia, in Spagna e negli altri più: piccoli stati federati. All’uopo la ditta gigante può temporaneamente ribassare i prezzi sui mercati propri della ditta minore, costringendola al fallimento e alla resa a discrezione”. Einaudi smonta questa tesi con riferimento allo Stato federale, rispetto allo Stato sovrano nazionale, con due ordini di argomenti.
In una federazione fra Stati, gli interessi divergono: “Sarà assai più difficile mettere d’accordo gli agricoltori della Danimarca con quelli della Sicilia per chiedere protezione contro i cereali russi o canadesi o argentini, perché se alcuni cerealicoltori siciliani, quelli grossi e grossissimi […] chiederanno di essere protetti, gli agricoltori danesi protesteranno, perché interessati a ottenere cereali di qualità per sé stessi e cereali inferiori per il bestiame lattifero”.
Gli interessi economici potenti non vanno visti solo nella sequenza settoriale, per così dire “orizzontale”, in cui i grossi gruppi organizzati prevalgono sui piccoli, ancorché numerosi, non organizzati. Ci sono anche gli interessi contrapposti di grandi imprese produttrici di beni che impiegano (come beni strumentali) i prodotti di altre grosse imprese. E, nel caso di Stati sovranazionali, ciò potrà generare un conflitto d’interessi fra grosse imprese di Stati diversi, che ostacolerà le politiche di protezionismo degli uni a danno degli altri.
Ed ecco il secondo argomento einaudiano: è vero che anche in uno Stato sovranazionale, il governo centrale, cioè quello federale, può soggiacere agli interessi economici di gruppi potenti, ma, data l’ampiezza del mercato e la varietà e diversità di interessi regionali, sarà più difficile che essi possano allearsi fra di loro e trovare un consenso politico centrale per dar luogo a intese monopolistiche. Ma la vera ragione per cui Einaudi ritiene che la tesi in questione sia errata è che egli nega che “il colossale sia sinonimo di forza e di bassi costi, che basti cioè ingrandirsi per distribuire le proprie spese generali su una massa crescente di prodotti”.
Secondo Einaudi, “la verità è diversa: che l’ingrandimento delle dimensioni è vantaggioso sino a un certo punto, sino a quel punto cioè in cui sia raggiunto la combinazione ottima dei fattori produttivi.”
Da L’eredità di Luigi Einaudi, Skira (2009)