Luca Ricolfi traccia un bilancio del triennio renziano
Della politica economica del governo Renzi si possono dire molte cose, a seconda del punto di osservazione e a seconda delle proprie convinzioni. A me, ad esempio non sono piaciuti gli innumerevoli bonus e sussidi che sono stati distribuiti con l’evidente scopo di generare consenso elettorale, un punto su cui l’ex premier Mario Monti ha giustamente attirato l’attenzione al momento di spiegare il suo No al referendum costituzionale.
Al contrario, ho molto apprezzato alcune riduzioni del carico fiscale sui produttori, e persino un provvedimento da molti contestato come l’abolizione della tassa sulla prima casa.
E tuttavia, se vogliamo tentare un bilancio dei 1000 giorni del governo Renzi, la strada non può essere l’elenco più o meno salomonico delle tante cose buone e delle tante cose discutibili che ci sono passate sotto gli occhi nel triennio 2104-15-16. Un bilancio è fatto di addizioni e sottrazioni, ma soprattutto di pochi numeri fondamentali, che sintetizzano l’andamento di un’impresa, di un’istituzione, di un governo in un determinato arco di tempo. E in quest’ultimo caso, quello di un governo, i numeri essenziali sono quelli dei conti pubblici.
Ebbene, se facciamo questa operazione, il bilancio appare decisamente negativo. Nel triennio renziano, nonostante la stabilità dei prezzi, sono aumentate le entrate nominali della Pubblica amministrazione, è aumentata la spesa pubblica primaria, è aumentato lo stock del debito pubblico. Le cifre esatte sono incerte perché mancano i dati completi del 2016, e i numeri del 2017 sono ovviamente ipotetici. Ma resta il fatto che, comunque si facciano i calcoli, i segni sono quelli: un po’ più di tasse, un po’ più di spese, un po’ più di debito.
Pur avendo ridotto molte imposte e tagliato molte spese, il governo non è riuscito a resistere alla tentazione di aumentare altre entrate (ad esempio quelle che pesano sul risparmio) e inventare nuove spese (alcune sacrosante, altre di natura elettorale).
Di qui il paradosso per cui, a fronte di innumerevoli (e sbandieratissimi) tagli di imposte e di spese, il peso della Pubblica amministrazione sull’economia a rimasto ai livelli altissimi che aveva toccato ai tempi dei governi precedenti. L’attesa di una riduzione del perimetro della Pubblica Amministrazione, che liberasse risorse per il settore privato, andata sostanzialmente delusa. [spacer height=”20px”]
Fin qui credo che i critici abbiano ragioni da vendere. Alcuni di essi, tuttavia, si spingono decisamente più in là, e arrivano a tracciare un quadro apocalittico dell’Italia che esce da tre anni di governo Renzi. Ho sentito con le mie orecchie, in televisione, leader del fronte del No parlare di impoverimento, di aumento della disoccupazione, di un’Italia che uscirebbe stremata dalle politiche degli ultimi anni. Questa diagnosi a radicalmente sbagliata, e soprattutto incompatibile con la prima, quella che sottolinea deterioramento dei conti pubblici.
Proprio perché ha puntato su politiche espansive, il governo Renzi ha prodotto sia un peggioramento dei conti pubblici (circa 100 miliardi di debito in più) sia un alleggerimento dei bilanci privati, innanzitutto familiari. II potere di acquisto delle famiglie a aumentato di oltre il 3%; le famiglie in grado di risparmiare sono passate dal 17,2% del totale al 24,4%; le famiglie in difficoltà, che alla fine del mese devono fare debiti o attingere ai risparmi, sono praticamente dimezzate: erano il 30,2% nel bimestre gennaio-febbraio 2014, sono scese al 17,4% nel bimestre novembre-dicembre di quest’anno.
Detto un po’ crudamente, l’essenza della politica del governo uscente a stata di dare un po’ di ossigeno a famiglie e imprese attraverso un ulteriore deterioramento dei conti pubblici. Un indirizzo che trova un preciso riscontro in un altro numero sintetico, quello dell’andamento del Pil: nei 1.000 giorni del governo Renzi il Pil e cresciuto di circa l’1,8%, più o meno la meta dell’aumento del reddito disponibile in termini reali. Lo scarto a stato pagato con più debito pubblico e, temo, ci costerà un aumento degli interessi sul debito, del resto segnalato da tempo dall’aumento degli spread con la Germania e con la Spagna.
Perché le cose sono andate così?
La risposta maliziosa a che, come molti (non tutti) i suoi predecessori Renzi si è preoccupato del consenso immediato più che del futuro del Paese. Ma c’è anche un’altra risposta, meno maliziosa e forse più inquietante. Renzi e il suo ministro dell’Economia hanno voluto credere in una teoria che promette di conciliare le esigenze del presente con quelle del futuro, e proprio per questo gode della massima considerazione fra i politici.
Detta in due parole, la teoria dice: la spesa in deficit è la scintilla che può far ripartire il motore della crescita, che a sua volta permetterà di ridurre il debito. Credo sia venuto il momento di prendere atto che la teoria non ha funzionato, e che la scommessa basata su di essa stata perduta. Se non fosse cosi, l’Italia non sarebbe in stagnazione, e non continuerebbe a occupare le ultimissime posizioni in Europa quanto a crescita del Pil.
Forse, prima di intestardirsi con ulteriori iniezioni di denaro preso a prestito dai mercati finanziari, varrebbe la pena guardarsi intorno e riflettere sulle esperienze degli altri Paesi europei. Che mostrano una realtà tanto nitida quanto difficile da digerire per la politica: nel quinquennio 2010-2015 (l’ultimo per cui si hanno dati completi) quel che ha fatto la differenza fra Paesi che crescono e Paesi che ristagnano a innanzitutto la capacità dei governi di ridurre l’interposizione pubblica. II tasso di crescita medio dei Paesi che l’hanno ridotta a stato del 2,5%, quello dei Paesi che (come l’Italia) l’hanno aumentata a stato dello 0,4%. Uno scarto di circa 2 punti che sussiste comunque, sia per i Paesi dell’Eurozona sia per i quelli che ne stanno fuori, sia per i Paesi europei più ricchi sia per quelli meno ricchi
Che questo fosse il nodo, sembrava pensarlo lo stesso Renzi, che all’inizio della sua avventura prometteva drastiche riduzioni delle tasse e delle spese. C’è da augurarsi che, chiunque sieda a Palazzo Chigi in futuro, capisca che quelle promesse avevano un senso e, purtroppo, attendono ancora di essere realizzate.
Luca Ricolfi, Il Sole 24 Ore 11 dicembre 2016