C’è, in Europa, un gioco delle parti, paradossale solo in apparenza. Gli antiamericani tifano, compatti, per Donald Trump. I filoamericani sperano nell’impeachment o anche, eventualmente, in qualunque altra gabola o miracolo che possa servire a cacciarlo dalla Casa Bianca.
Le ragioni per le quali gli antiamericani sono con lui e i filoamericani contro sono le stesse.
I primi sperano, e i secondi temono, che egli smantelli quella società liberale occidentale che l’America ha contribuito a difendere e a sostenere dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi.
Protezionismo, sovranismo, convergenza con i russi. I nemici del libero mercato e della democrazia (occidentale) vanno a nozze con un simile programma. Da sempre, odiano l’America perché, con le idee e con le armi, ha sostenuto, e difeso (contro i vari tipi di totalitarismo che si sono succeduti nel corso del tempo), questi due pilastri della società liberale.
Gli antiamericani apprezzano Putin perché rappresenta un mondo e una cultura antitetici rispetto a quella occidentale. Trump ha dato loro la speranza che in Europa possa realizzarsi un grande rivolgimento: la fine della influenza (culturale, economica, politica, militare) americana e la sua sostituzione con l’influenza russa.
Come gli antiamericani sanno benissimo, o intuiscono, un simile rivolgimento porterebbe in breve tempo anche l’Europa fuori dalla (odiata) civiltà liberale. Sono identiche le ragioni che spingono i filoamericani ad avversare Trump.
Essi continuano a pensare che senza l’America non ci siano argini contro i nemici della società aperta. Pensano che il protezionismo generi povertà, guerre e dispotismo. Pensano anche che con Putin si debba trattare ma senza abbassare la guardia, nella consapevolezza della distanza, culturale e politica, che ci separa da lui.
In quella prospettiva risulta solo indigesto un presidente che si propone di smantellare, in nome del nazionalismo e dell’opposizione a qualunque forma di internazionalismo — ivi compreso l’internazionalismo liberale — il ruolo egemonico assunto dall’America dopo il 1945.
Per questo, i filoamericani sperano che il Russiagate diventi la fossa politica di Trump. Al momento, questa appare solo una pia illusione. Ma è comunque lecito sperare che egli ne esca condizionato. In modo da minimizzare, da ridurre il più possibile, i danni che la sua amministrazione potrebbe procurare al mondo occidentale nel suo insieme.
Ci sono tuttavia due aspetti del «trumpismo» che hanno una certa validità e che non dovrebbero essere gettati via. Il primo riguarda la sua opposizione nei confronti della ideologia del politicamente corretto.
I nemici di Trump farebbero bene a non sottovalutare quanto quella opposizione abbia suscitato consensi e contribuito alla sua vittoria. La malattia — lo sappiamo — è nata nei campus universitari e si è poi diffusa anche al di fuori. Il politicamente corretto è una forma di integralismo culturale che ammorba l’aria e soffoca il libero pensiero. È davvero poco lungimirante lasciare a Trump il compito di combatterlo.
Il secondo aspetto riguarda la sua politica mediorientale. In questo momento Trump è in visita in Arabia Saudita. Non è affatto sicuro che le sue scelte in questa parte del mondo siano sbagliate.
Fu una comprensibilissima reazione al terrorismo di marca sunnita (ideologicamente allevato dall’Arabia Saudita) che colpì gli americani l’11 Settembre 2001, a spingerli, con le presidenze Bush (invasione dell’Iraq) e Obama (accordo nucleare con l’Iran) ad allentare i tradizionali legami con gli Stati sunniti e a riaprire i canali chiusi ai tempi della rivoluzione khomeinista in Persia (1979) con i musulmani sciiti.
Passato un quindicennio, si può ormai constatare che percorrendo questa strada la minaccia rappresentata dall’integralismo islamico non sia stata battuta né arginata. Anzi, proprio l’allentamento dei legami fra gli Stati Uniti e i Paesi sunniti ha fatto sì che essi favorissero la nascita dello Stato islamico.
Non si può affermare che il ritorno, propugnato da Trump, alle alleanze tradizionali in Medio Oriente (con Israele e con i sunniti) sia irragionevole.
Chi qui da noi non crede che l’Europa sia capace di camminare sulle proprie gambe, che non sia in grado da sola, senza una salda partnership con gli Stati Uniti, di difendere, con le idee e con la forza, la società liberale, spera che Trump se ne vada al più presto. O, almeno, in subordine, che le solide istituzioni americane riescano a contenerlo. [spacer height=”20px”]
Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 22 maggio 2017