Non so se Donald Trump possegga uno yacht e sia uso portarci i soci in affari, ma qualche tempo fa ha radunato a Mar-a-Lago, in Florida, gli amministratori delegati delle venti più importanti compagnie petrolifere degli Stati Uniti, e gli ha detto: se mi aiutate a tornare alla Casa Bianca, una volta rieletto cancellerò l’Agenda verde di Joe Biden.
Gli amministratori delegati gli hanno risposto: certamente Donald. E gli hanno promesso un miliardo di dollari (non è un refuso: un miliardo). Così, se Donald sarà rieletto, la guerra ai combustibili fossili sarà rinviata e loro di miliardi continueranno a farne. Non è che Biden resti a guardare. Anche lui punta al miliardo e ce la farà senz’altro.
Qualche mese fa ha organizzato una due giorni coi colossi di Wall Street nella speranza di convincere sessanta di loro a investire nella sua campagna elettorale: ne ha trovati il doppio, soprattutto le aziende del big tech, storicamente dalla sua parte anche perché, per esempio, la scorsa primavera ha stanziato venti miliardi di dollari in sovvenzioni e prestiti per Intel, il gigante dei chip incaricato di fare concorrenza alla Cina e rendere più autonoma la Silicon Valley, dove hanno sede Meta, Google eccetera.
Se anziché sostenere il candidato si sostiene un obiettivo – tipo più pozzi di petrolio – le donazioni possono essere illimitate. L’idea americana è che le lobby devono muoversi allo scoperto, in concerto con la politica, ed è esattamente il conflitto fra dichiarati interessi a rendere la democrazia, per quanto si possa, più pluralista e trasparente. Noi invece abbiamo le procure, la questione morale e la lagna.