Ben oltre il meteo
La meteorologia è una pratica che presenta non poche difficoltà. Una è la smentita. Può accadere che “le previsioni del tempo”, come diceva il mitico colonnello Bernacca, siano smentite dalla pioggia o dal sole o dal vento o dalla nebbia.
La ‘materia’ è per sua natura mutevole e tende – per dirlo ancora con la mitologia televisiva – al “Sereno variabile”. Insomma, le previsioni sono fatte anche per essere smentite. Non è un’ipotesi remota. È la normalità della stessa pratica meteorologica. Se questa particolarità delle “previsioni meteo” fosse tenuta in debito conto si farebbe un uso migliore della meteorologia.
Purtroppo, oggi, la previsione meteo è stata elevata a metodo di governo del territorio. Un grave errore. Infatti, conoscendo il dramma italiano del sistema idrogeologico della quasi totalità del territorio nazionale, si cerca di sopperire all’assenza di governo della terra e delle acque con il ricorso all’allerta meteo.
La toppa peggiore del buco. Perché arriverà sempre un momento in cui la Protezione civile dirà – come accaduto nell’ultimo dramma nazionale nelle Marche – che si è trattato di «un fenomeno meteo impossibile da prevedere nella sua intensità». Viviamo un tempo in cui si tende a credere con troppa facilità che la tecnologia possa sostituire il bisogno umano, terreno e terrestre, di governare.
Siamo sempre alla ricerca di un sistema di sicurezza assoluto per poi scoprire che viviamo per natura nell’incertezza. Lo scrittore Mark Twain – quello de “Le avventure di Tom Sawyer”– diceva: «Non è quello che non sai a metterti in pericolo. È quello che dai per certo e invece non lo è».
Credere o far credere che si abbia a disposizione un sistema infallibile mentre non solo l’uomo ma la stessa scienza è scientifica proprio perché fallibile, significa incamminarsi sulla via che conduce ai disastri. Non è la fatalità che condanna l’Italia ad avere sistematicamente in autunno le mani nel fango: è l’incoscienza di pensare di poter fare a meno del governo del territorio.
Le civiltà nascono e muoiono a ridosso dei fiumi. Anche i Comuni italiani – sono più di ottomila – nascono e muoiono a ridosso dei fiumi. Credere di abitare, costruire e lavorare in un paese attraversato da un fiume – in alcuni casi da due fiumi – e non curarsi quotidianamente delle acque vuol dire prepararsi a mettere le mani nel fango per liberare la strada, la casa, l’opificio e – il cielo mi perdoni – cercare i propri cari.
Le tragedie autunnali portano i nomi dei fiumi. Oggi il Misa, ieri il Calore, l’altro ieri il Sarno (e si può continuare per molto di alluvione in alluvione). Non solo se ci rivolgiamo a un ingegnere ma anche se parliamo con un contadino –sempre che si sia capaci di trovare un buon ingegnere e rintracciare un contadino – ci sentiremo dire che un fiume straripa se gli argini sono trascurati dall’uomo.
Ma non solo. Anche la nostra letteratura ce lo dice. Machiavelli, “Il Principe”, capitolo XXV: «…a uno di quei fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, ruinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro senza potervi in alcuna parte ostare».
E cosa si può fare dinanzi a questa furia della natura? Affidarsi al meteo? Prendersela poi con la sfortuna? Non resta altro da fare che gli uomini «quando sono tempi queti» costruiscano «ripari e argini»: in modo tale che quando arriverà la tempesta, che sempre arriva, il fiume o andrà «per un canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né si licenzioso» (violento).
O impariamo o avremo sempre le mani nel fango.