Il ministro Padoan ha annunciato per l’estate un decreto per favorire l’ accesso delle piccole e medie imprese (Pmi) al credito. A che punto siamo? L’ intervento è urgente perché sono le Pmi che più subiscono gli effetti della stagnazione globale e degli zero virgola nazionali. Per continuare a competere – o forse anche solo per sopravvivere – hanno bisogno di investimenti che al momento non sono in grado di reperire attraverso le fonti tradizionali di credito.
Le Pmi sono anche il cuore della nostra economia. Innovano immettendo sul mercato prodotti originali, creano occupazione e ricchezza e contribuiscono alle casse dello Stato. Per crescere hanno bisogno di modelli di business che rispondano alle trasformazioni del mercato globale e della rivoluzione digitale e di un ecosistema favorevole, cioè libero dalla burocrazia e fiscalmente non opprimente. Hanno soprattutto bisogno di poter accedere al credito per continuare ad investire. Le banche sono state la prima fonte di credito per le imprese. Con il 2016 si è finalmente ammorbidito l’ indice di rigidità per l’ erogazione del credito, e contemporaneamente la richiesta di finanziamenti da parte delle Pmi è tornata a crescere, cosa che non succedeva dal 2008. L’eccessiva dipendenza dalle dinamiche e dagli umori degli istituti di credito tuttavia resta un problema. La fatica a beneficiare dei muscolosi strumenti promossi dalla Bce ne è la dimostrazione. Così, l’accesso al mercato dei capitali e a strumenti finanziari alternativi come i bond, minibond – mai decollati per una questione di dimensione e rischio connesso – i mezzanine o i direct lending, lo sviluppo di piattaforme di crowdfunding e soprattutto di equity, sono un’opportunità imperdibile.
In Italia l’ esperienza del mercato alternativo dei capitali (Aim) è stata sino ad oggi importante ma non ancora sufficiente.
Nel 2015 sono state registrate 18 Ipo e 2 ammissioni per una raccolta complessiva superiore a 284 milioni (+45% sul 2014 ma ancora inferiore al 2007). Dal 2009 ad oggi si sono quotate 85 società con una raccolta complessiva di oltre 872 milioni. All’estero invece le cose vanno molto meglio. In Gran Bretagna dal 1995 ad oggi Aim Uk ha accolto oltre 3.600 imprese per circa 95 miliardi di sterline. Il nostro paese ha intrapreso la direzione giusta ma il passo è troppo lento. La situazione dei mercati globali certo non aiuta. Il rallentamento dell’ economia mondiale aggiunge ulteriore tensione agli operatori già preoccupati per la precarietà che attraversa molte regioni del pianeta, a cominciare dall’Europa.
Si sta così generando una progressiva avversione al rischio che porta i gestori dei grandi fondi internazionali ad incrementare la quota di portafoglio destinata alla liquidità. Questo non fa bene ai mercati e a chi cerca investitori, tantomeno alle nostre Pmi. Serve perciò un intervento che stimoli il cosiddetto investitore paziente cioè colui che è disposto a scommettere sul piano di sviluppo di una Pmi. Il decreto anticipato dal governo dovrebbe introdurre tra le altre azioni il Pir, Piano Individuale di Risparmio, lo strumento con cui, attraverso la leva dell’agevolazione fiscale, si proverà a canalizzare il risparmio verso l’ economia reale.
Le Pmi potrebbero così contare su risorse stabilmente destinate alla produzione mentre gli investitori troverebbero l’incentivo per investire nel mercato azionario. In Gran Bretagna questi strumenti hanno favorito l’istituzione di fondi di investimento specializzati dedicati alle Pmi. Cosi, per esempio, i fondi di previdenza integrativa potrebbero portare nelle nostre imprese investimenti stabili nel medio e lungo periodo. L’estate è arrivata, noi aspettiamo il governo.
Pietro Paganini, La Stampa del 2 agosto 2016