Sette italiani su dieci cedono sul sostegno all’Ucraina per ragioni storiche, culturali e sondaggistiche. Per ora il governo rimane atlantista ma sarà dura andare avanti a lungo
Difficile pensare si possa andare avanti a lungo nel sostenere un conflitto così poco popolare tra gli eletti e gli elettori italiani. Ovvio notare che la necessaria opera pedagogica sulle ragioni di fondo per cui il conflitto in Ucraina ci riguarda direttamente sia ora in capo a Giorgia Meloni. Ed è su questo, oggi, che si misurerà la sua leadership interna ed internazionale.
Il contesto è scoraggiante, il dissenso colossale. Ma ciascun dissenso, in fondo, ha la sua spiegazione “politica”. I sondaggi per Conte, Berlusconi e Salvini. L’antiamericanismo, cioè il rifiuto del modello capitalista, per una parte del mondo cattolico e per quella destra e quella sinistra estreme ancora radicate la prima nel fascismo e la seconda nel comunismo sovietico. Un idealismo prossimo all’infantilismo per alcuni commentatori e diverse realtà sociali. La paura della guerra e la salvaguardia dell’interesse economico immediato per il 70% dei cittadini.
Ogni dissenso ha la sua ragione “politica”, certo, ma la somma delle singole ragioni politiche fa dell’Italia un unicum in Occidente e rischia di spingerci ancora una volta verso la parte sbagliata della Storia.
Ci sono, evidentemente, ragioni più profonde per spiegare perché, con un misero 30% di favorevoli, siamo la nazione dell’Alleanza atlantica e della Comunità europea meno propensa a sostenere lo sforzo militare del popolo ucraino. Evidentemente, non consideriamo quella degli ucraini contro l’invasore russo la “nostra” guerra. Mancano, nella percezione dei due terzi degli italiani e di molti dei loro rappresentanti politici, sia il senso di un’identità comune minacciata da Vladimir Putin sia la consapevolezza che in gioco vi siano valori fondanti e in quanto tali irrinunciabili. E manca perciò la disponibilità al sacrificio.
Ci manca, per ragioni storiche (secoli di conflitti interni e di dominazioni straniere), la fiducia nello Stato in quanto tale e nella bontà delle sue scelte. Ci mancano, per ragioni religiose (la mancata Riforma protestante), l’etica del sacrificio e della responsabilità individuale e collettiva. Ci mancano, per ragioni storiche e per ragioni religiose, il senso della tragedia e quello del destino. E ci manca il sentimento di una comune appartenenza all’Europa e all’Occidente. Siamo, notoriamente, un Paese di furbi: entriamo in guerra solo quando riteniamo che altri la vinceranno per noi, usciamo dalla guerra alleati di regola col nemico iniziale e perciò in conflitto con l’alleato degli esordi.
Ma centrale è la nostra, storica, refrattarietà a quei principi liberali e democratici che rappresentano la vera posta in gioco nel conflitto ucraino e il vero obiettivo dell’aggressione putiniana. Ma quei valori e quei principi sono da sempre minoritari nella nostra società. Lo testimonia il fatto che per i primi cinquant’anni di storia repubblicana il sistema politico e la società civile italiane sono stati egemonizzati da un partito marcatamente cattolico legato alla Chiesa e da un partito marcatamente comunista legato all’Unione sovietica. Insieme rappresentavano il 70% dei cittadini italiani, mentre la destra più o meno post fascista ne rappresentava, mediamente, un altro 7%. Liberali ed atlantisti erano formalmente una minoranza allora e lo sono sostanzialmente ancora oggi che la demagogia ha preso il posto dell’ideologia.
Sua Maestà il Caso, per dirla con le parole di Federico II di Prussia, ha voluto che a difendere i principi e i valori liberali e democratici sia oggi Giorgia Meloni. Buona fortuna a lei e di conseguenza a noi.