All’indomani del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, mentre il modello che ha ispirato quel progetto è diventato un bersaglio su cui troppi sparano, Viva l’Europa viva di Davide Giacalone ci aiuta a capire questo momento in cui «dirsi europeisti» — come non smette di fare, giustamente, l’autore di questo libro — è diventato un problema, un’affermazione che desta reazioni vivaci».
«A nulla serve — osserva — prendersela con le crescenti forze antieuropee. Chi ha le maggiori responsabilità è l’europeismo capace di celebrazioni e incapace di aggiornamenti».
Le celebrazioni le abbiamo viste il 25 marzo. Ce ne sono state, va detto, anche di più inutili. Gli aggiornamenti potrebbero arrivare, si potrebbe aggiungere, se le leadership dei Paesi fondatori si renderanno conto, senza reticenze, della impellente necessità di un nuovo inizio: parlare di una velocità» diversa ha un senso solo, infatti, in uno scenario in cui si hanno le idee chiare su come utilizzare questa velocità e dove andare.
Ma non è questo il punto del ragionamento di Giacalone, interessato in primo luogo ad una lettura attenta delle premesse storiche alla base della crisi. «Anche per gli europeisti vale quel che vale per gli antieuropeisti: il mondo in cui si e formato lt desiderio dell’Unione non c’è più ed è inutile rimpiangerlo, intanto perché non toma, e poi perché non c’è ragione di rimpiangerlo».
Sia gli uni che gli altri, prosegue, guardano con nostalgia ad un’epoca in cui la loro sovranità, e quindi la loro responsabilità, era limitata. Bisogna smettere invece di guardare al passato, abitudine che unisce sia le forze politiche tradizionali che i cittadini impauriti dalla globalizzazione: il mondo in cui viviamo e molto migliore di quello da cui veniamo.
Archiviato il passato, si tratta di pensare al futuro. Cercando di essere realisti. Non ci sono margini, secondo l’autore di Viva l’Europa viva, per la realizzazione di «altro», come per esempio uno Stato federale. Dopo il concepimento, l’avviamento, il velocissimo allargamento, arrivato il tempo del consolidamento.
Come riuscirci? Devono essere gli Stati a «trasfondere democrazia» in ambito europeo e per farlo sono necessarie a suo giudizio tre cose: smetterla con il metodo intergovernativo, mantenere una rappresentanza per Stati su tutte le materie istituzionali dell’Unione (attribuendo a ciascun membro pari peso) e decidere a maggioranza su tutto il resto, riconoscendo a ciascuno la forza derivante dalle dimensioni della sua popolazione.
In un recente incontro con il Financial Times, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha ricordato di «essere stato eletto quattordici volte» nel corso della sua carriera. «Essere descritto come un stupido burocrate senza legami con la democrazia rappresentativa — ha detto — e difficile da sopportare».
Non ha tutti i torti, l’inaffondabile lussemburghese, e verrebbe quasi voglia di difenderlo (se non avessimo qualche dubbio su come l’Europa abbia declinato nel recente passato il concetto di «democrazia rappresentativa») soprattutto dopo aver sentito tanta generica retorica di «cambiamento» durante l’era del precedente governo.
Su quest’ultimo punto ci viene in aiuto Giacalone quando parla dei politici incapaci di capire che «se fai il verso a chi soffia sul rogo gli elettori che intendono scaldarsi a quel fuoco preferiranno gli incendiari originari e originali». E può bastare una scintilla per distruggere tutto.
Paolo Lepri, Il Corriere della Sera 8 aprile 2017