XVI Congresso ordinario dell’Ucpi: la relazione del segretario Avv. Francesco Petrelli.
Una breve premessa
Eventi minacciosi, come il terrorismo, le guerre, le migrazioni dei popoli, i vecchi e i nuovi regimi totalitari che attaccano il cuore dei diritti che noi difendiamo, la libertà di opinione, la libertà di religione, la parità di genere, i diritti civili e la dignità della persona, rischiano di modificare i nostri stili di vita e ciò che sembra più grave, di cambiare il nostro pensiero, e ci costringono a vedere anche il mondo della giustizia nella luce di queste grandi trasformazioni, in parte ingovernabili, globalizzate, che a volte sembrano mostrare la nostra impotenza, tanto più di fronte all’impoverirsi del pensiero politico, ed all’incedere tumultuoso e disordinato di un mondo che non sembra rispondere più ad alcuna forma di prevedibilità dei suoi futuri sviluppi.
Di tutte le filosofie più recenti che hanno colto la natura irreversibile ed incontrollabile dell’evoluzione del mondo post-moderno, nel quale tutte le ideologie, le forme e le istituzioni stesse della modernità sembrano aver perso, non solo la loro carica propulsiva, ma anche il loro senso più profondo[1], le più pericolose sono quelle che ritengono inutile individuare un qualche nucleo condiviso di valori e di principi, indicando come unica linea di evoluzione e di sviluppo per il futuro mondo dei diritti e delle garanzie, la rottamazione di ogni diritto e di ogni garanzia.
È necessario invece cogliere, con uno sguardo capace di trarsi fuori dal contesto a volte disorientante del quotidiano, un orizzonte di senso più alto e più esteso, e di decifrare in questo nuovo spazio, le linee del processo del futuro, all’interno delle quali costruire un modello intorno al quale fondare una cultura dei diritti fondata su principi forti e stabili, capaci di tenere insieme tutti gli interessi, tutti i soggetti e tutte le garanzie indeclinabili della persona.
Parole come tassatività, legalità, presunzione di innocenza, divisione dei poteri, esercitano ancora un fascino potente ed evocano in noi un universo di valori solidi, riconoscibili e spendibili, che non ci paiono affatto sofisticherie post-illuministiche, come qualcuno vorrebbe farci credere, con l’intento di smantellarli. Ci sembrano invece ancora i limiti più veri e più sani della dignità della persona, i più somiglianti al senso profondo dell’umanità stessa.
Bologna: la metafora della “Terra”
Due anni fa eravamo a Venezia, poi a Cagliari, prima ancora ci eravamo ritrovati a Genova, a Trieste, a Rimini e a Palermo … dopo tante città di mare, ora finalmente Bologna: una città di “terra”. Nella metafora, le città di mare, con i loro approdi e i loro porti, sono i luoghi delle partenze, degli arrivi, i luoghi dei viaggi e dei ritorni. Le città di terra sono invece il luogo della stabilità. Il luogo dove si vuole restare. Nella metafora sono il luogo dei punti fermi, della necessità stessa di trovare un nuovo equilibrio, di consolidare il senso di appartenenza, il desiderio di rintracciare un senso compiuto delle cose sin qui fatte e di quelle che restano da fare, di misurare le forze prima di intraprendere una nuova e difficile impresa.
Ma la “terra” è anche, in questa stessa metafora, e più in generale, il bisogno di riflettere sulla necessità di avere punti di riferimento certi, e di ritrovare, non solo i valori indeclinabili e i principi irrinunciabili del processo, e le virtù necessarie all’avvocatura del futuro, ma anche i fondamenti del nostro stare insieme, della nostra esperienza associativa, e il loro perché.
Il danno di questa post-modernità liquida è, infatti, quello di farci smarrire la certezza della modernità stessa, di farci dubitare della necessità dei principi intorno ai quali abbiamo costruito le nostre idee di giustizia e di equo processo. Di farci chiedere se la tutela del principio di legalità sia un valore del passato cui si possa rinunciare in favore di un nuovo attraente “diritto penale della sicurezza”. Di farci domandare se le garanzie di libertà siano negoziabili, e possano essere svendute per soddisfare le pulsioni sempre più libere e più incombenti di una penalità vista come unico strumento palingenetico della società, della politica, della nostra intera convivenza civile, pubblica e domestica.
Tutto questo ci fa chiedere se non si debba, con convinzione, porre un argine a questa marea crescente che postula la inevitabilità, non solo del cambiamento del nome del gioco, ma anche di tutte le sue regole. E ci fa porre spesso l’interrogativo, se difendere quel nome e quelle regole può fare di noi dei conservatori.
Ci pone, in fin dei conti, di fronte ad una non banale riflessione: quando noi promuoviamo (come recita l’art. 2 del nostro Statuto) “la tutela dei valori fondamentali del diritto penale”, a quali valori facciamo riferimento? Quando quelle parole dello Statuto furono scritte non parve necessario dire quali fossero quei “valori fondamentali”, sarebbe stato quasi un inutile vezzo, un esercizio di stile. Oggi scriverlo, e dichiararlo, è divenuta una imprescindibile e improrogabile necessità.
Lorenzo Zilletti ha riportato di recente le parole – giustamente definite “terribili” – di Paolo Grossi, secondo il quale “il Parlamento italiano non ha e non merita di avere il monopolio della democrazia”, per cui occorrerebbe insorgere contro “i luoghi comuni ed i dommatismi sordi al divenire”, imponendosi “contro le lenti deformanti dell’efficacissima propaganda post-illuministica”, l’urgenza di “rivedere la dimensione astratta della legalità e dell’uguaglianza” e di “demitizzare un terreno come quello penale minato da mitologie risalenti e resistenti”[2].
Proprio sul tema della “mitologia risalente e resistente” del nostro modello accusatorio, che noi, invece, ci ostiniamo a difendere e a promuovere, vale forse la pena di citare anche le parole scritte tempo addietro dall’attuale Presidente del Senato Piero Grasso, all’epoca Magistrato addetto al Gabinetto del Ministero, il quale nel 1992 (anno fatidico per il nostro codice e per il suo nuovo modello accusatorio), definì quel codice “inadatto alla nostra indole”, “pericoloso nelle nostre circostanze”, ed infine certamente “incapace di individuare e punire gli autori delle più gravi violazioni della convivenza civile”.
Credo sia utile ed opportuno citare entrambe queste opinioni perché esprimono nel “profondo” il pensiero di due delle più alte cariche dello Stato, e perché rappresentano in maniera emblematica, per la rilevanza dei ruoli istituzionali che i loro autori hanno ricoperto o ricoprono, nei gangli essenziali dell’accademia, nella magistratura e della politica, non solo la crisi dei modelli processuali e dei fondamenti della loro legittimazione, ma soprattutto la preoccupante visione di coloro che quel modello, in concreto, avrebbero dovuto interpretare e difendere.
In tempi difficili e di rapida transizione, quale è certamente quello che viviamo, vediamo come un pericolo l’evoluzione dei sistemi: da quello chiuso, piramidale, nel quale è nata e cresciuta la nostra generazione, a quel nuovo modello di giustizia aperto, policentrico, costituito da una rete di sistemi; dal diritto nazionale a quella globalizzazione del diritto che è divenuta così formidabile da condizionare anche coloro che resistono alla globalizzazione, perché nel resistervi non indicano più modelli nazionali, ma vanno elaborando una resistenza globale alla globalizzazione, fatta ancora una volta di valori condivisi e transnazionali[3].
Lo stesso “principio di legalità”, che ha costituito la bussola capace di orientare il nostro pensiero, ora declina verso una nuova suadente forma di “legalità materiale” (o “sostanziale”) capace di coniugare e di “fondere” assieme l’attività normativa e quella interpretativa, la figura del giudice con quella del legislatore.
Di fronte al pericolo che i valori del codice accusatorio, per il quale abbiamo combattuto tante battaglie, vengano dispersi sotto l’onda d’urto della barbarie del populismo e della demagogia, o dal semplice incedere disordinato e disorientante della cd. “globalizzazione del diritto”, si può essere tentati dall’idea del “monastero” (che accomuna quelle della trincea o del muro) nel quale richiudere, per preservarli, i valori del passato. Con il rischio che tuttavia,passata l’ “orda”, quei valori gelosamente preservati non servano più a nulla e possano divenire oramai una moneta fuori corso.
Non basta dunque “arroccarsi” a difesa dei valori del processo se tale difesa non è accompagnata da una più profonda analisi e da una rielaborazione culturale capace di dimostrare che quei valori non sono semplici convenzioni, ma costituiscono ciò che nel mondo del diritto appare più prossimo ai valori dell’umanità, e che distaccarsi da quei valori significa distaccarsi dalla dignità dell’uomo.
Vi è, o piuttosto vi dovrebbe essere, un fondo di bellezza, un’armonia, un equilibrio estetico, anche nel processo penale, ce lo ricorda Ennio Amodio, nel suo ultimo libro, citando le parole di Cesare Beccaria, il quale denunciava un modo di fare giustizia “tumultuario ed interessato”[4] che ci sembra di vedere interpretato, con sempre maggiore ed incauto fervore da giudici e media.
Noi siamo convinti che anche quei valori ultimi che noi difendiamo e quei principi di legalità e di irretroattività, abbiano in sé qualcosa di bello e di armonioso che debba essere preservato, perché corrisponde all’armonia e al senso profondo dell’animo umano, contro la barbarie dei nuovi rottamatori del diritto.
L’Unione ha da tempo maturato, nelle sue analisi, questa duplice convinzione: che da un lato, dietro alle singole modifiche dei codici si celasse un più vasto e pericoloso movimento di messa in discussione dell’intero sistema valoriale sul quale si fonda il nostro sistema penale, e che, dall’altro, non fosse né utile, né sufficiente una difesa che si limitasse a rimpiangere il passato.
Nell’ottobre dello scorso anno, l’allora Presidente, Rodolfo Sabelli, in apertura del Congresso dell’ANM, sferrò un lucido attacco alla “pericolosa prospettiva tecnocratica” che, realizzandosi, avrebbe determinato un primato dell’economia sulla politica e sulla giurisdizione: portata al suo naturale sviluppo, quella riflessione avrebbe dovuto condurre anche la magistratura associata ad una difesa di quei valori fondanti e non alla apertura verso le derive “tecnocratiche” che vanno dall’utilizzo pervasivo ed ubiquitario del cd. Trojan, che (infiltrato da remoto nei nostri smartphone, palmari, pc e tablet …) apre la nostra società al peggiore degli incubi orwelliani, all’estensione indiscriminata ed irragionevole della partecipazione a distanza, che trasforma il processo penale in un simulacro di processo, con buona pace dei principi del contraddittorio e dell’immediatezza e, direi anche, senza dubbio, della dignità stessa della persona e della funzione difensiva. Su questi temi abbiamo detto i nostri motivati e inequivoci “no”, ottenendo modifiche non trascurabili[5], e quanto alla partecipazione a distanza non ci fermeremo sino a quando non vedremo rispettati quella dignità dell’uomo e del processo, ponendo, nel caso la norma dovesse essere approvata, nuove questioni costituzionali e convenzionali.
Sebbene qualcuno vi vuole convincere che questo “smantellamento” e questa “rottamazione” dei principi costituirebbero un’opera di “modernizzazione” dell’universo del diritto e del processo, che apre per la giustizia penale le sorti progressive dell’efficienza ed alla speditezza, noi crediamo, invece, che dietro questa operazione si nascondano i più evidenti interessi di conservazione e di riaffermazione di valori antidemocratici ed autoritari, contro le libertà, le garanzie e i diritti civili del singolo.
Un travisamento, questo, tanto più insidioso in un momento in cui i diritti di libertà sono svalutati e svenduti nel nome di un bisogno collettivo di sicurezza determinato anche, in quest’ultimo arco di tempo, dall’angosciosa esperienza del terrorismo[6].
Su questo fronte, lungi dal rinchiuderci in un angolo abbiamo dato spazio a confronti ed a riflessioni tecniche aperte al modo dell’avvocatura, della magistratura e dell’accademia, organizzando importanti convegni nazionali quali “Dal giudice garante al giudice disapplicatore di garanzie” (Firenze, 2015); “Anatomia del potere giudiziario” (Bologna, 2015); “Il diritto penale del (per il) nemico” (Bologna, 2016); “Il Principio di stretta legalità tra giurisprudenza nazionale e comunitaria” (Prato, 2016); “Il burocrate creativo” (Firenze 2016), che hanno anche dato origine a successive pubblicazioni degli atti, diffuse ed apprezzate nell’ambito dei vertici della giurisdizione e della politica, che hanno fornito un fondamentale contributo di riflessione.
Siamo purtroppo spesso soli nel tutelare i valori del diritto penale (inteso nella collettività sempre più come affiliazione penale e sempre meno come limite imposto dal diritto), e nell’interpretare e difendere il modello accusatorio, contro un intero sistema ordinamentale, nell’esercizio quotidiano della giurisdizione, contro il Legislatore e contro la magistratura associata, spesso contro il suo stesso organo di governo. Una solitudine che però a volte ci motiva, che a volte ci fa sentire quella che abbiamo chiamato l’inevitabilità della nostra passione, ma che per non essere autoreferenziale deve sempre cercare e trovare nella realtà un nuovo terreno di confronto.
Giudici e no
Quella crisi del diritto che investe l’intero mondo occidentale, assume nel nostro Paese caratteristiche proprie.
Se nell’intero mondo occidentale il problema è quello della presenza di un giudice che oramai governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell’economia, dell’ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica, improvvisando così soluzioni sul caso concreto, in Italia questa espansione si risolve in un duplice problema.
Mentre nel mondo occidentale il problema della modernità riguarda il ruolo del Giudice nella società, nel nostro Paese il problema è quello di trovare un “giudice” che possa autorevolmente e legittimamente coprire quel ruolo.
L’anomalia, nel nostro Paese, è infatti nei rapporti ordinamentali che distorcono in radice gli equilibri giurisdizionali. E’ nella figura stessa di una Magistratura onnivora che assimila giudici e pubblici ministeri. Che confonde quella che dovrebbe essere la cultura del limite con la lotta ai fenomeni criminali. Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore[7].
Perché mentre altrove è comunque un “giudice” ad esercitare quei nuovi poteri, nel nostro Paese è “un giudice che non è giudice” (in quanto privo del fondamentale requisito costituzionale della Terzietà) a governare questi spazi smisurati: li crea, li alimenta o li elimina a suo piacimento. Giovandosi della ricerca del consenso, pur non essendo eletto. Governando la politica, pur essendo un funzionario. Collocandosi, di fatto, al vertice della produzione normativa, pur essendo un “burocrate”.
Collocato all’interno di una Magistratura autocratica, questo tipo di giudice-non-giudice si sottrae con ostinazione agli interventi del potere legislativo.
Quello che altrove è, dunque un problema politico-ideologico, ed esclusivamente una questione di delimitazione del ruolo, nel nostro Paese assume le dimensioni di un abisso istituzionale all’interno del quale la nostra stessa democrazia lentamente sprofonda. E’ un motivo sufficiente per tracciare una linea netta fra coloro che, all’interno della intera magistratura, ricoprono la figura di Giudici terzi e di coloro che svolgono invece funzioni requirenti. E’ tempo che la magistratura restituisca alla democrazia ciò che da tempo indebitamente detiene.
Si tratta di una battaglia difficile, che doveva essere inevitabilmente ripresa. Se forse un sano buon senso borghese ci avrebbe dovuto sconsigliare dal riprenderla, la forza della ragione e della passione ci hanno detto che quella strada non poteva non essere intrapresa. Lo dico con parole non mie: riprendo il passaggio della Relazione di chi, oramai qualche anno fa, ha ricoperto nell’Unione questo stesso ruolo e, riflettendo proprio sui rapporti fra il buon senso e la realtà, ricordava “come tutte le posizioni di buon senso” abbiano di solito la meglio, “salvo poi dimostrarsi, come al buon senso spesso accade, del tutto inadeguate rispetto alla realtà”[8]. Non saprei dirlo meglio.
Mi sembra necessario fare, in proposito, un’ultima considerazione. I rapidi mutamenti cui ho fatto prima sommario riferimento non riguardano esclusivamente i principi e i valori del processo penale, ma investono anche l’assetto costituzionale. Fra non molto saremo chiamati a rispondere ad un quesito referendario dal cui esito dipendono le sorti di una nota e controversa riforma destinata ad incidere in maniera non irrilevante sull’assetto del nostro Parlamento. Poiché siamo avvocati, e poiché crediamo nel ruolo sociale e politico dell’avvocatura, da intellettuali e da giuristi, non possiamo restare indifferenti a questo tema e dovremo impegnarci di qui a breve, anche senza dover prendere una posizione sul tema, nella promozione, sia in ambito nazionale che territoriale, della discussione relativa a tutti i profili della riforma costituzionale.
Ma credo che in proposito debba essere fatta una considerazione che dimostra, in fin dei conti, non solo la necessità, ma anche la pregiudizialità, di realizzare, attraverso la separazione delle carriere, un “giudice terzo”.
Potremo, infatti, avere un Parlamento con un bicameralismo perfetto o paritario, che a fatica emani la migliore delle leggi penali, o un Parlamento più snello che ne emani più rapidamente di ancor migliori, ma a cosa sarà valso tutto ciò se poi un giudice continuerà ad avere il potere incontrastato di deformare i limiti di quella legge ed avrà nel suo dominio esclusivo la possibilità di manipolarne i contenuti, volgendone le finalità, attraverso una interpretazione creativa, in tutt’altra direzione? E’ allora innanzitutto questo il problema che dobbiamo risolvere, ed è evidentemente questo il fronte sul quale dobbiamo tutti impegnarci.
Il controllore e il controllato
Se vogliamo ricollocarci all’interno di un contesto europeo, moderno ed avanzato, dobbiamo certamente immaginare dei limiti all’agire della magistratura penale, e dobbiamo operare perché la politica assuma nuovamente su di sé la responsabilità del governo della società, ma non possiamo non essere consapevoli che gli effetti delle decisioni dei giudici sono destinati ad avere ricadute un tempo inimmaginabili sugli equilibri sociali ed economici, sulla sicurezza e sulla promozione e sulla tutela dei diritti e delle garanzie.
Di fronte a questa prospettiva non possiamo non dotarci di un giudice osservante della “cultura del limite”. Questa espressione riassume efficacemente tutte le aspettative che una democrazia liberale coltiva nei confronti di un potere giurisdizionale, che sia garante dei diritti di libertà dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato, all’azione dei pubblici ministeri, agli atti investigativi della polizia giudiziaria che a quei pubblici ministeri risponde. Ma non può essere solo uno slogan da agitare nei convegni o nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario.
Il giudice non può che assolvere istituzionalmente a questo compito essenziale che lo pone come ultimo “controllore” degli esiti dell’azione penale promossa dai pubblici ministeri. Ma se questo è il compito del Giudice non potremo non riconoscere che “controllore” e “controllato”, giudice e pubblico ministero, non possono appartenere ad un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo, non possono condividere i medesimi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente.
Il profilo di sofferenza del nostro attuale sistema, nato in un contesto nel quale il giudice regolava ancora piccoli spazi del contesto sociale e lo poteva fare con una impronta ancora paternalistica, non è soltanto quello della “amicizia” in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: “PM e giudici prendono il caffè insieme” o “si danno del tu”), ma piuttosto quella della assenza di una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta alla efficienza ed all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale ed istituzionale democratico, complesso e aperto.
Quante volte abbiamo visto, infatti, giudici visibilmente “ostili” ai pubblici ministeri, ma non per questo Terzi. Perché abbiamo spesso visto quegli stessi giudici supplire ad una presunta incapacità dell’Accusa, prendere nel processo il posto del PM. Se, infatti, Pubblico Ministero e Giudice pensano entrambi di essere impegnati – sia pure con funzioni differenti, e magari “concorrenti” – nella medesima lotta contro questo o quel “fenomeno criminale”, il giudice non potrà mai essere Terzo.
Se questa riforma non è ancora scritta nell’agenda della politica, saremo noi a scriverla. Se non vi sono le condizioni per questa riforma, saremo noi a crearle, perché fare politica significa da sempre proprio e soltanto creare le condizioni del cambiamento.
I rapporti fra politica e magistratura; una vicenda paradigmatica
Trattare la questione dei rapporti fra politica e magistratura non è compito di questa Relazione, ma si tratta di un tema congressuale non secondario (“separare la magistratura dalla politica”) che intercetta una nostra recente esperienza che non credo sia giusto passi inosservata, perché a mio avviso assume un valore paradigmatico e perché tocca un tema per così dire sensibile della nostra azione politica, che costituisce un perdurante motivo di scandalo nel nostro Paese: la custodia cautelare.
Come è noto, per la prima volta, è stata presentata al Parlamento la Relazione, prevista dall’art. 15 della legge di riforma della custodia cautelare n. 67, entrata in vigore l’8 maggio del 2015, che costituisce pertanto il primo documento ufficiale che affronti le questioni inerenti all’utilizzo delle misure cautelari personali, alla eventuale modifica della loro applicazione in rapporto alla introduzione delle nuove norme, ed ai rapporti delle stesse con gli esiti del processo.
Non voglio certamente qui ripercorrere le critiche che sono state rivolte al documento, le cui gravissime carenze riguardano la assoluta modestia del dato di rilevazione statistica, costituito solo dal 35% dei Tribunali (così parziale da non consentire – anche per via della natura del tutto casuale della “selezione” del campione – di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà)[9].
Sta di fatto che nessuno dei momenti critici dell’applicazione delle misure cautelari personali viene effettivamente inquadrato ed analizzato[10]. Nulla viene detto in ordine al dato sconcertante (del tutto ignorato) relativo alla mancata applicazione della misura degli arresti domiciliari per mancanza dei dispositivi elettronici di controllo previsti dall’art. 275 bis c.p.p.
Troverete sul nostro sito il commento critico che abbiamo ritenuto necessario diffondere, ed a quel documento rinvio per ogni ulteriore approfondimento, ma qui il tema è un altro. Quella relazione, al di là delle manchevolezze denunciate (tanto evidenti che il Ministero stesso all’indomani della pubblicazione del nostro commento si è affrettato a dire che avrebbero fatto meglio in futuro), si conclude – contro ogni evidenza – con un elogio del giudice delle misure, che utilizza il carcere con grande parsimonia, che applica tutte le misure gradate con lungimiranza e generosità, che ha a cuore il criterio dell’attualità, emettendo provvedimenti cautelari solo per fatti commessi (o meglio iscritti) negli ultimi 365 giorni[11].
Una apologia tanto spropositata da rendere evidente un paradosso. La legge impone al Governo di monitorare e di relazionare sull’uso della custodia cautelare da parte della magistratura, con una evidente funzione di controllo. Ma quel Ministero, presidiato da magistrati, stenta evidentemente, a sottoporre a controllo, per così dire, “se stesso” ed a generare una valutazione critica efficace. Anche qui il controllore e il controllato si identificano in una medesima struttura. Ci chiediamo a cosa serviranno le buone intenzioni del legislatore se poi il controllo sui risultati della applicazione della legga è affidata, di fatto, agli stessi soggetti che sono tenuti ad applicarla[12].
QUALE MAGISTRATURA
A questa Relazione non spetterebbe neppure il compito di delineare i rapporti futuri con la Magistratura, ma credo sia consentita una breve annotazione sullo stato delle cose, non solo perché la salute della magistratura è evidentemente una questione che riguarda l’intera collettività, ma anche perché, nel campo della Giustizia, come in ogni altro settore dell’esperienza umana, nessun soggetto si tiene da solo e ciascuna parte del gioco concorre a disegnare e a definire i lineamenti dell’altra.
E’ da tempo che la magistratura associata vive una crisi, declinando verso una progressiva sindacalizzazione. Il cambio generazionale che tiene banco nelle questioni relative alle proroghe, alle pensioni, ed all’ingresso in campo di una nuova leva di giovani magistrati, pone una questione più ampia e più impegnativa rispetto alle mere prospettive previdenziali, in quanto pone la prospettiva del tramonto di una intera cultura, di una costellazione di valori e di impegno ideologico che, nel bene o nel male, ha contrassegnato con forza la storia della Repubblica.
La crisi di credibilità che la magistratura attraversa di fronte l’opinione pubblica, è il frutto di un investimento sbagliato, è il risultato dell’attribuzione e dell’assunzione di una presunta funzione palingenetica che la giurisdizione penale non può e non deve avere, dell’uso progressivo, e sempre più sofisticato, dei media, e dell’utilizzo di entrambi questi due strumenti come mezzo per acquisire consenso popolare alla propria categoria e gettare discredito sulla politica.
I danni determinati nel tempo da questa deriva populistica hanno inevitabilmente destabilizzato il delicato equilibrio che in ogni moderna democrazia ed in ogni società aperta, deve contrassegnare il rapporto fra potere giudiziario e potere politico, ponendo la magistratura (responsabile di ciò come è ovvio, anche la confusione di ruolo e di culture fra parte requirente e parte giudicante)[13] in una posizione agonistica al centro della società – con tutto ciò che questo significa in termini di perdita di credibilità e di legittimazione – e di assestamento della stessa magistratura su mere posizioni di potere.
Noi non sappiamo quale cultura sosterrà la magistratura del futuro, ma sappiamo che non avremo più nei rapporti associativi, né come cittadini, né all’interno dei fori come avvocati, una magistratura legittimata dalla medesima forza, cultura ed impegno. Dalla medesima consapevolezza della responsabilità e dei limiti del proprio ruolo. Anche ai suoi livelli apicali.
Di converso noi, in virtù della nostra specializzazione, e di una specificità sempre protetta, coltivata e promossa, siamo riusciti a resistere ad ogni deriva di categoria, corporativa e sindacale. Se noi saremo sufficientemente consapevoli delle nostre capacità, saremo noi a rilegittimare una nuova magistratura forte, autorevole e indipendente, proprio attraverso il suo inserimento all’interno di un nuovo e moderno ordinamento giudiziario.
L’identità dell’unione
Ogni Giunta è, nel bene e nel male, nei suoi pregi e nei suoi difetti, necessariamente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Senza queste inevitabili mutazioni non vi sarebbe d’altronde alcuna evoluzione. Abbiamo raccolto una eredità importante dalle Giunte precedenti ed abbiamo cercato di interpretare al meglio quella eredità, mettendoci qualcosa di nostro. Si trattava di un onere non indifferente, ma anche di un’opportunità. Chiunque si candidi al governo dell’Unione assume su di sé questa straordinaria responsabilità: crescere restando fedele alle proprie radici.
L’Unione ha conquistato nel tempo una identità che certamente prima non aveva. La nostra vocazione è sempre stata quella di difendere e di promuovere i diritti e le garanzie, non solo come strumento di tutela degli accusati, ma come imprescindibile valore della nostra stessa democrazia. Convinti che diritti, garanzia e valori civili stanno o cadono tutti insieme. Per molto tempo, e certamente per troppo tempo, le nostre battaglie e la nostra identità sono state confuse con la tutela degli interessi dei nostri assistiti.
Chiedere diritti e dignità per i detenuti al carcere duro significava essere mafiosi, così come difendere i terroristi significava esserne i fiancheggiatori. Si confondeva la difesa del singolo imputato con la difesa del delitto. Una confusione che certo non è cessata perché ancora oggi, pericolosamente, questo sentimento riemerge e l’avvocato viene oltraggiato e minacciato, come è avvenuto a Trento e poi a Lucca, solo per aver fatto il proprio dovere ed aver svolto il proprio doveroso mandato. Ma non solo, questa sovrapposizione è riemersa ancora, in forma di insopportabile e indegno pregiudizio, anche di fronte alla morte violenta del giovane Collega e Segretario della Camera Penale di Lamezia Terme, Francesco Pagliuso, la cui immagine stessa sarebbe risultata compromessa dal fatto di aver assistito questo o quel presunto mafioso[14]. In nessuno di questi casi, come sanno i Colleghi delle Camere territoriali, abbiamo dimenticato di far sentire la nostra voce.
Ma la voce dell’Unione, sempre libera, politicamente trasversale e indipendente, mai inquinata da derive di tipo sindacale o corporative, attenta ai diritti di tutti ed alla tutela del processo come valore democratico e condiviso, destinato a disegnare il livello di civiltà e di modernità dell’intero Paese, ha finito per conquistarsi nel tempo un riconoscimento indiscutibile: quello di un interlocutore “geneticamente disinteressato”, che in un contesto nel quale i “corpi intermedi” risultano ovunque in crisi, conserva con successo questa sua inedita, formidabile identità.
La nostra capacità di comunicazione, a seguito di questa profonda modificazione della percezione della nostra identità, ha visto, conseguenzialmente ed inevitabilmente, una intensa fase di sviluppo. L’esserci collocati definitivamente ed autorevolmente in uno spazio qualificato di interlocutori insostituibili sulle questioni della giustizia, e di portatori di un interesse della intera collettività ad un giusto processo, ha fatto si che radio, televisioni e carta stampata, ben al di là ed oltre i consueti ambiti di contiguità e di vicinanza (quale è stato, ad esempio, per lungo tempo quello occupato dalle Cronache del Garantista), ci cercassero, ci chiedessero interviste, articoli e contributi.
Non è ovviamente merito solo di questa Giunta, perché è evidente che abbiamo raccolto e messo a frutto il lavoro di tutte le Giunte precedenti. Ma lo abbiamo fatto bene e sarebbe sciocco non rivendicarlo con un certa soddisfazione. E se è certamente necessario, su questo fronte, fare di ancora di più e fare meglio, dobbiamo certamente dire, con eguale soddisfazione, che sembrano davvero lontani i tempi (2004) in cui scrivevamo, con giusto orgoglio, che avevamo “comprato pagine di quotidiani” e che in qualche caso, su quei quotidiani, eravamo “riusciti anche a scriverci le nostre opinioni gratis”.
Abbiamo avuto, in questi due anni, uno spazio inusitato sulla carta stampata della più diversa estrazione, da Il Manifesto a Il Foglio, dalla Stampa al Il Giornale, da Il Tempo al Corriere della Sera e al Sole 24 Ore. Abbiamo pubblicato innumerevoli articoli e scritto lettere aperte, abbiamo pubblicamente risposto a Panebianco e a Ferrarella, a Travaglio e a Gratteri, a Davigo, a Caselli, a Scarpinato, a Nordio e a molti altri. Attraverso i media abbiamo interloquito con la politica e con il Governo. E speriamo di averlo fatto con una qualche efficacia.
Si è trattato e si tratta di una presenza continua ed importante che consente alle nostre idee ed alle nostre posizioni di circolare nella società e di alimentare il dibattito sulla giustizia, di far sentire sempre la voce dell’avvocatura penale, senza la quale molti fatti e molte ragioni sarebbero destinate a rimanere del tutto sconosciute ai più, restando emarginate dalla discussione politica sulla giustizia in un ambito puramente autoreferenziale.
L’attività di studio e di elaborazione è stata in questi due anni vastissima. Si sono tenuti nel primo anno numerosissimi convegni di livello nazionale in collaborazione delle Camere Penali territoriali (Roma, Prato, Trento, Palmi, Roma, Torino, Patti e Barcellona Pozzo di Gotto, Roma e Benevento), ed un numero ancor maggiore nell’anno successivo (Bologna, Roma, Napoli, Torino, Roma, Prato, Firenze, Treviso, Bologna, Capo d’Orlando, Rimini, Roma, Sanremo, Venezia, Firenze, Saluzzo …), per un totale complessivo di quasi 50 eventi.
Ed altrettanto importante è stato il numero delle pubblicazioni effettuate nell’ambito del nostro progetto editoriale, dedicato alla formazione ed alla elaborazione scientifica. La cultura costituisce uno strumento tanto indispensabile quanto utile ai fini della nostra azione politica. Non solo perché per chi si costituisce come soggetto politico con la vocazione alla trasformazione della cultura giudiziaria, l’analisi e l’elaborazione tecnica e concettuale costituisce lo strumento con il quale costruire una nuova e diversa consapevolezza dei valori democratici del processo da parte della classe politica e della classe intellettuale del Paese, ma anche perché la reazione all’interno dell’Unione di una nuova classe dirigente non può prescindere dalla elaborazione e dalla diffusione, all’interno dell’intera avvocatura penale, di un patrimonio valoriale stabile comune ed accreditato[15].
Sul terreno della creazione di una nuova cultura del processo nella nostra società abbiamo ereditato due anni fa un prezioso protocollo sottoscritto con il MIUR dalla precedente Giunta. Un seme prezioso che abbiamo coltivato con cura, dedicandogli un intero Osservatorio che, affidato alla guida di un’instancabile Cinzia Gauttieri, ha raggiunto traguardi straordinari e pubblici riconoscimenti.
Siamo convinti che il dialogo con le generazioni del futuro, con la diffusione dei valori e dei principi costituzionali e convenzionali del giusto ed equo processo nei licei, sia la strada da seguire con impegno per sottrarre i cittadini del domani a quella cultura giustizialista, populista e demagogica che pervade i media e i social e la intera rete e che va progressivamente sostituendo l’opinione pubblica con un indistinto “pubblico privo di opinioni”.
Il valore della passione
Voglio infine ringraziare tutti coloro che mi hanno quindi permesso di fare questa esperienza dentro l’Unione. Ringrazio per primo Beniamino Migliucci che mi ha incautamente coinvolto in questa avventura, perché senza la sua contagiosa forza, senza la sua fiducia, il suo consiglio e il suo sostegno, non avrei potuto affrontare questo difficile compito. Ringrazio tutti gli amici della Giunta che mi hanno costantemente supportato, sollecitato, criticato ed rincuorato, senza ciascuno di loro il mio lavoro sarebbe stato impossibile. Ringrazio tutti voi riuniti in questo Congresso bolognese per realizzare il senso reale della democrazia, perché solo voi qui deciderete se l’esperienza di questa Giunta debba proseguire, se e quale programma debba essere realizzato.
Senza l’aiuto di tutti non potremo portare avanti il nostro progetto e la nostra idea di associazione, nella quale tutte le Camere Penali hanno un ruolo unico e pertanto straordinario, nel quale la pazienza del coinvolgimento e del lavoro, e non regole imposte dall’alto, favoriscono l’omogeneità e sviluppano le sinergie. Una associazione nella quale la responsabilità di chi governa si coniuga inevitabilmente, per volontà del Congresso, alla scelta di un Programma ed all’impegno di realizzarlo con il contributo e il concorso di tutti, senza partiti e senza contrapposizioni.
Sarebbe davvero paradossale se noi adottassimo al nostro interno e nelle nostra stessa azione politica, quel populismo e quella demagogia che spesso siamo costretti a rimproverare ai nostri interlocutori. Noi abbiamo sempre difeso e difendiamo il valore della passione e non le presunte virtù del fanatismo. Ed è con questa passione che ci siamo confrontati e continueremo a confrontarci al nostro interno e con i nostri interlocutori. Sempre e ovunque.
Ma voglio ringraziare anche tutti coloro che in questi due anni mi hanno scritto e mi hanno chiamato, tutti gli amici delle Camere penali che mi hanno chiesto indicazioni, pareri, interpretazioni e consigli, che mi hanno sollecitato iniziative, criticato articoli di stampa e documenti, tutti coloro che hanno segnalato errori e spiegato la loro contrarietà a questa o a quella idea. Tutti gli amici e le amiche degli Osservatori con i quali è stato possibile lavorare. Ma permettetemi fra i tanti di ricordarne una in particolare di amica. Di ricordare il suo modo sbrigativo di chiamarmi, il modo in cui pretendeva che riferissi di questo o di quello a Beniamino, dell’incontro al CNF piuttosto che con qualche Commissione, il modo in cui ci ricordava impegni presi e documenti da visionare, che magari erano rimasti indietro. La sua voce resterà per me la voce di ciò che ci ricorda degli impegni presi, delle promesse fatte e del lavoro che resta da compiere.
Ma c’è una ragione ancora, al di là dell’affetto, per cui credo di dover concludere ricordando Paola Rebecchi, perché Paola, occupandosi con una passione straordinaria, tanto nella professione, quanto nell’associazione, della difesa degli ultimi, ci ha lasciato una testimonianza che deve farci riflettere tutti sulla natura del nostro ruolo e sul significato della nostra esperienza.
Perché tutti noi ci dedichiamo alla difesa di coloro che siedono sul gradino più basso del riconoscimento sociale, alla tutela dei diritti degli indagati, degli imputati, dei condannati, dei reclusi e di tutte le vittime di tutte le misure, vecchie e nuove[16]. Lo facciamo con convinzione, sebbene vediamo con indicibile strazio attorno a noi cadere le vittime innocenti delle guerre e del terrorismo, bambini estratti dalle macerie dei bombardamenti, corpicini di migranti abbandonati sulle spiagge, una dolente umanità chiedere asilo dalle guerre e dalle povertà, una povertà che cresce silenziosa anche nelle nostre città, erodendo i diritti e le garanzie dei più deboli, vediamo barcollare sotto l’urto di questi immani problemi tutte le democrazie.
Eppure, anche in questo scenario globale così drammatico, che vede anche gli avvocati, in quanto difensori dei diritti e dei valori della democrazia, arrestati, condannati, uccisi, vittime di stragi[17], noi continuiamo con la stessa convinta ostinazione a difendere nei processi i diritti e le garanzie di quegli ultimi.
E lo facciamo per una ragione particolare, perché sappiamo qualcosa che non tutti sanno, e perché abbiamo compreso qualcosa che non tutti hanno compreso. Che quei diritti e quelle garanzie costituiscono proprio “la garanzia che possano esservi delle garanzie”. Caduti i diritti e cadute le garanzie degli ultimi, potranno infatti cadere tutte le garanzie e tutte le libertà. Questo è ciò che giustifica la nostra e la vostra passione.
Bologna, 30 settembre 2016
Il Segretario Francesco Petrelli
Note:
[1] Sul punto, mi piace ricordare la relazione di Fausto Giunta alla Inaugurazione dell’Anno Giudiziario di Palermo, nel 2015.
[2] Traggo la citazione dallo splendido volumetto curato da Carlo Guarnieri, Gaetano Insolera e Lorenzo Zilletti, ”Anatomia del potere giudiziario”, Carocci Editore, Roma 2016 (atti del convegno tenutosi a Bologna il 20 novembre 2015). Ometto solo l’invito, non meno terribile, alla revisione “della colonna di basalto, del porro unum necessarium dello Stato borghese di diritto, costituito dalla affermazione dommatica della divisione dei poteri …” (Id., p. 11).
[3]Ed è per questa ragione che, dopo esserci chiesto quale sia la legittimazione del giudice nazionale a fronte di questa sua “espansione” di competenze e di quella sua inarrestabile “creatività”, ci apprestiamo ad indagare su quale sia la legittimazione e quale sia la leva del giudice sovranazionale.
[4] E. Amodio, Estetica della giustizia penale – prassi, media, fiction”, Giuffrè, Milano 2016.
[5] Sul tema del “processo a distanza”, che indubbiamente si risolve – come abbiamo efficacemente sottolineato – in una inaccettabile “distanza dal processo”, abbiano deliberato ben due astensioni, scritto documenti, diffuso manifesti, inviato lettere aperte al Ministro ed al Senato, rilasciato interviste e scritto diversi articoli ed ovviamente fatto sentire la nostra voce nelle Commissioni.
[6]Dobbiamo ricordare, contro questa cultura che sta determinando nel diritto penale un clamoroso arretramento, come quei secoli di distanza culturale che ci separano dall’integralismo del terrore, e che ci fanno orgogliosi della nostra storia, sono intessuti proprio di questi valori e di questi principi, e sono trascorsi riflettendo sull’idea che “il fine non giustifica i mezzi”, convincendoci che le garanzie assumono un valore ed un significato proprio quando vengono usate“contro” il nemico. Credo che andrebbe svolta una indagine sul campo per verificare, in tutti i processi di merito e nei procedimenti cautelari incidentali, quale sia la tenuta delle garanzie con riferimento ai fatti qualificati come “associazione terroristica”.
[7] Il riferimento iconografico è noto ai più …
[8] Relazione del Segretario Valerio Spigarelli al X Congresso Ordinario di Bari, nel 2004 (“Se non ora quando?”).
[9]II che significa che solo 48 Tribunali, sul totale dei 136 presenti sul territorio dell’intero Paese, hanno risposto alle richieste del Ministero! Nulla viene detto del perché il 65% dei Tribunali della Repubblica non abbiano risposto alla richiesta del Ministero, sottraendosi di fatto a quello che è un obbligo di legge. Il fatto è grave e meriterebbe esso stesso una ulteriore meditazione circa i motivi e le conseguenze di tale inadempimento che appare tanto più sconcertante se si consideri che il rilevamento attiene non ad esigenze secondarie dell’amministrazione, bensì al nucleo fondamentale delle garanzie di libertà dei cittadini.
[10] Deve rilevarsi come, peraltro, non sia stata operata alcuna distinzione fra gli effetti riferibili, nel tempo, alla riforma del 2013 (Legge 9 agosto 2013 n. 94) con la quale è stato innalzato a 5 anni il limite di applicabilità della misura custodiale in carcere, ovvero alla riforma del 2014 (Legge 11 agosto 2014 n. 117), che ha introdotto l’ulteriore limite prognostico di 3 anni di pena effettiva da scontare, ed infine alla più ampia riforma del 2014 con la quale si è intervenuti anche sulla fase del controllo delle misure in sede di Tribunale per il Riesame (sui cui primi eventuali effetti la Relazione tace del tutto).
[11] Anche su questo punto si fa rinvio al testo del nostro Commento.
[12]Pur contenendo annotazioni di contenuto evidentemente “politico” e non esclusivamente tecnico, la Relazione non è sottoscritta dal Ministro, che ha lasciato spazio all’apparato amministrativo. Come rilevava già Weber, all’interno delle moderne democrazie un effettivo dominio della politica sull’apparato tecnico “è possibile soltanto in modo limitato al non-competente: alla lunga il consigliere competente quasi sempre ha la meglio nel mandare ad effetto la propria volontà, sull’incompetente diventato ministro”,M. Weber,Economia e società, Comunità, Milano 1968, Parte I, capitolo III, § 5, p. 218.
[13] I più giovani non ricorderanno un famoso articolo di Angelo Panebianco, scritto all’epoca di “Tangentopoli”, nel quale l’editorialista affermava di aver fatto uno scoop straordinario, e di aver cioè “scoperto” che il dott. Di Pietro non era un “Giudice” …. (in effetti tutti i giornalisti lo chiamavano “il giudice Di Pietro” inoculando nel pubblico una perniciosissima confusione!).
[14] Siamo intervenuti in quelle occasioni con comunicati tempestivi, rilanciati da tutte le agenzie e ripresi dalla stampa, e con articoli di giornale, approfondendo questo tema spinoso il cui continuo ripresentarsi denuncia un preoccupante arretramento culturale dell’intero Paese, dei media e della Politica.
[15]Ci eravamo dato, in proposito, un’altra meta ambiziosa che sembrava irrealizzabile, quella di riprendere l’esperienza di una rivista dell’UCPI che desse finalmente voce alle prospettive critiche dell’avvocatura penale, contro una cultura riduttiva ed omologante della massimazione, ed abbiamo invece realizzato, sotto la guida di Giorgio Spangher, quel progetto, pubblicando in occasione del Congresso il primo numero di “Parola alla difesa”.
[16] Termine era piaciuto a Maximilien de Robespierre, che riteneva di sostituire l’idea stessa di “processo” con una semplice “misura”, strumento securitario efficace, rapido e sbrigativo.
[17] Abbiamo ribadito con forza questo concetto anche quando in Turchia, come in Pakistan, gli avvocati sono stati vittime di persecuzione e di attacco terroristico.