Il nuovo ha un sapore di vecchio. Si compone di due forze, il M5S e la Lega, assai diverse fra loro, ma anche assai simili in quel che hanno di nuovo e che sa maggiormente di vecchio. Di molto vecchio. Per vederlo si deve volgere lo sguardo a est del mercato.
Il tema dell’immigrazione è coerente, ma fuorviante. Coerente perché cavalca sentimenti opposti all’universalismo religioso e all’internazionalismo politico. Coerente perché incarna il rigetto della globalizzazione. Ma fuorviante, perché risponde a una paura innescata dalla pregressa pretesa di usare il sentimentalismo al posto del ragionamento sulla convenienza e dell’imposizione di legge e ordine. I temi economici, invece, sono disarmanti per quanto limpidi.
Il M5S si batte per una legislazione del lavoro incentrata non sul mercato, ma sul lavoratore. O, meglio: sul cittadino cui spetta la dignità della vita anche laddove non lavori. La Lega si batte per una legislazione pensionistica incentrata sul diritto di chi riscuote e il dovere di chi paga (ovvero lo Stato, tutti e, quindi, nessuno). Il M5S ha un’idea delle opere pubbliche come servizio ai bisogni dei cittadini, avendo in uggia quelle che pretendono di servire al mercato e alla produzione. La Lega la pensa diversamente, ma perché ritiene servano a mantenere la proprietà italiana delle aziende (anche qui in ossequio a chi riscuote con noncuranza per chi paga) e perché crede nella loro dimensione medio-piccola, capace di tenere la produzione lontano dalla finanza. Prese in buona fede, queste posizioni, diverse fra loro, hanno in comune una convinzione: il benessere si agguanta facendo pernacchie al mercato. Anzi, è proprio il mercato, con le sue leggi di compatibilità, competitività, profittabilità, ad essere nemico del benessere. Più ci si lascia travolgere dal mercato e più si tradisce il benessere popolare.
È il nuovo che avanza? No, è il vecchio che torna a gola, perché queste sono le posizioni che furono del movimento comunista internazionale e del Partito comunista in Italia, come lo furono della pretesa movimentista e sociale di quella destra che volle incarnare i valori dell’Italia rurale (bio, si direbbe oggi) e i sogni del nazionalismo industriale. Vennero meno davanti a un grandioso salto nel benessere, lontano dalle loro convinzioni e perversioni.
Due indizi.
1) Coerentemente con quella impostazione il Pci si batté contro le istituzioni europee e contro l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo (1979). Perché accettare vincoli? Servono a difendersi dalle speculazioni dei mercati? Ma noi li vogliamo cancellare, quei mercati, non conviverci. Vi ricorda qualche cosa?
2) La testa rivolta ad est, alla Russia. C’è la dipendenza economica di alcune formazioni (il Pci negava scandalizzato, ma è abbondantemente provato, mentre soldi russi ancora affluirono a Le Pen), ma c’è assai di più: una grande Patria che la storia ha reso antagonista dell’occidente capitalista. Lo era Pietro il grande. Lo fu l’Urss. Lo è l’odierna Russia putiniana. L’Asia dei valori e dei miti contro il mercato delle valorizzazioni e della ricchezza.
Sì, certo: storia e realtà sono più complesse e meno tagliate con l’accetta. Ma il profilo è nitido. E allora, perché l’opposizione al presunto nuovo non s’impone con coraggio ed efficacia? Perché in gran parte è figlia del vecchio. La mamma si concesse a diversi padri, ma trattò in modo equanime la prole, insegnando che il mondo bello è quello in cui comandano i buoni, non i più capaci di creare ricchezza. Circa il concetto di “buoni” si discetta fin da Platone, ma finisce sempre male.
Basterebbe dire: guardate che siamo diventati ricchi grazie alla valorizzazione dei talenti, alle libertà personali e imprenditoriali, non certo per bontà governativa o solidarietà fra dispersi e perdenti. Ma non ci riescono, perché la mamma è la stessa e dei papà si perse memoria.
Davide Giacalone, 9 agosto 2018