Alla vigilia dei 150 anni dalla nascita di Luigi Einaudi è persino stucchevole misurare la distanza tra lo statista piemontese, grande economista nonché primo presidente eletto della Repubblica, e l’attuale classe politica. Senza distinzioni di schieramento, s’intende. Salvo le solite rare eccezioni, l’eredità einaudiana si è dispersa. Qualcuno ne prende un pezzo alla bisogna, come un frutto dall’albero. Ma il gesto assomiglia sempre più all’omaggio che il vizio rende alla virtù. Eppure nessuno più di Einaudi avrebbe le caratteristiche per incarnare un modello di riferimento sul piano etico prima ancora che politico.
C’è una sinistra che afferma di voler dialogare e confrontarsi con una “destra europea”, finalmente guarita dalle sue tare. E chi meglio di Einaudi da indicare come traguardo? Ma chissà se si desidera davvero questo: una destra normale e autorevole, in luogo di un mosaico disordinato contro cui è facile sollevare la polemica quotidiana, quasi sempre ripetitiva nelle modalità e negli argomenti. D’altro canto, c’è una destra che almeno in qualche sua componente dichiara di volersi ispirare alle forze moderate del mondo occidentale, così da rendere l’alternanza al governo del paese un meccanismo ben oliato e privo di spigoli. Ma di nuovo: è proprio così? Nessuno a destra, salvo la minoranza liberale che è un’altra storia, ha mai avuto la tentazione di adottare Einaudi come emblema. Tutti preferiscono nuotare in un piccolo stagno fatto di populismo, parole d’ordine contro in”poteri forti”, difesa delle corporazioni, chiusure provinciali. All’economista del tempo che fu si riserva nelle occasioni speciali una generosa dose di retorica: “L’alfiere delle libertà” e via alle variazioni sul tema. Difficile dire se Einaudi avrebbe gradito queste esercitazioni, lui che della retorica era il nemico numero uno.
Pragmatico e minimalista, era un uomo che credeva in modo rigoroso nelle istituzioni senza essere (o forse proprio per questo) un uomo politico in senso stretto. Ma era guidato da un’idea straordinaria della moralità nella cosa pubblica e al tempo stesso, una volta salito al Quirinale, seppe come difendere tutte le sue prerogative quale presidente della Repubblica. In questo campo, almeno, la sua lezione non è andata del tutto perduta: alcuni suoi successori in tempi recenti, da Ciampi a Mattarella, l’hanno raccolta e reinterpretata, adeguandola ai tempi mutati. Resta il fatto viceversa che il banchiere umanista dice poco o nulla al mondo politico e parlamentare. Certo, una dichiarazione non si nega a nessuno nelle date canoniche, ma poi tutto finisce lì. Del resto, Einaudi era il simbolo con De Gasperi di un’Italia che si risollevava dalla guerra e guardava avanti con ottimismo. L’Italia di oggi fatica a scrollarsi di oggi l’immagine di un declino inesorabile che non è certo cominciato adesso, ma ci condiziona da anni. Con pochi momenti in controtendenza.
Vedremo. Senza dubbio i più sinceri nel ricordo di questo “liberista” che credeva nel ruolo dello Stato, purché non fuoriuscisse dagli argini; che odiava lo spreco del denaro pubblico e giudicava la vessazione fiscale a danno dei contribuenti un fallimento del governo, i più sinceri — dicevamo — saranno i membri della Fondazione Einaudi, saranno alcuni studenti della Bocconi e della Luiss, sarà “Libro Aperto” di Antonio Patuelli. Eppure questo conservatore in economia che era stato un collaboratore di Gobetti, in un sorprendete miscuglio di slanci giovanili quasi sovversivi e di rigore negli studi, ha rappresentato come pochi il senso della rinascita italiana. Un uomo del tardo Risorgimento che avrebbe qualcosa da insegnare oggi a chi ha smarrito la memoria storica.