Le dimissioni di Biden riaprono una partita che sembrava ormai conclusa. Forse Trump vincerà ugualmente le elezioni di novembre ma, per lo meno, i democratici si sono rimessi nella condizione di poter combattere. La democrazia americana conferma la sua vitalità ma come europei dobbiamo chiederci perché questa sfida elettorale sia per noi così importante, quale sia la differenza fra questa e tutte le elezioni presidenziali che l’hanno preceduta dopo la Seconda guerra mondiale. La differenza è che, se vincesse Trump, l’America potrebbe prendere il largo, abbandonare l’Europa al suo destino. Si determinerebbe una frattura all’interno della comunità delle democrazie occidentali. Con riflessi su tutto: con il rischio, per esempio, di un inasprimento delle misure protezioniste. E con un fortissimo impatto sul delicatissimo settore della sicurezza e della difesa. Proprio in un momento in cui il vecchio continente è di nuovo coinvolto in un conflitto armato. Dalla Seconda guerra mondiale gli europei si sono fatti proteggere dagli americani. Ciascuno aveva la sua brava convenienza: gli europei potevano investire risorse in welfare senza dirottarne troppe sulla difesa, gli americani si avvantaggiavano dell’accettazione europea della loro leadership. Tutto potrebbe cambiare se Trump vincesse.
Perché la sicurezza europea, una priorità di tutte le Amministrazioni dal ’45 in poi, non lo è per Trump e seguaci. Non è un caso che i filo-russi d’Europa siano suoi amici. Ucraina, rapporti europei con la Russia, difesa europea: su ognuno di questi temi i nostri governi dovrebbero rivedere da cima a fondo le loro agende politiche.
È possibile che con Trump l’Ucraina debba accettare un cessate il fuoco che lascerebbe a Putin i territori conquistati, gli consentirebbe di dichiararsi vincitore, prendere fiato e prepararsi per nuove avventure militari. I filo-putiniani di destra e di sinistra, rafforzati dalla vittoria di Trump, invocherebbero, in nome della «pace», l’appeasement fra Europa e Russia, ossia (come si diceva ai tempi della Guerra fredda) la «finlandizzazione» dell’Europa. Gran parte degli europei (ma non le tante aziende che vorrebbero ricominciare a fare affari con la Russia), plausibilmente, non sarebbe disposta a seguire gli amici di Putin su questa strada. Ma dovrebbe fare i conti con le nuove priorità dell’Amministrazione americana. A cominciare dalla richiesta, anzi l’ordine, di accrescere immediatamente le spese militari in ambito Nato (altro che aspettare qualche anno, come vorrebbe il nostro governo, per portare tale spesa al 2 per cento del Pil).
L’Europa verrebbe messa sotto pressione. Dovrebbe porsi il problema di dare vita alla famosa «gamba europea» della Nato di cui si è tanto parlato quando parlarne non costava politicamente nulla. Sarebbe plausibilmente l’inizio in Europa di uno psico-dramma collettivo, di un conflitto lacerante che ridisegnerebbe alleanze, amicizie e inimicizie. Dopo tante chiacchiere, per lo più noiose, sulla difesa europea si dovrebbe passare ai fatti. Spiegando agli europei che, nelle nuove condizioni, si tratterà di spostare (e immediatamente) risorse dal welfare al warfare, dal burro ai cannoni.
Gli europeisti, i quali fino ad oggi hanno potuto invocare la difesa europea senza suscitare scandalo, verrebbero allora dipinti come guerrafondai dai putinian-pacifisti di destra e di sinistra, da Orbán a Melénchon, passando per tutti gli altri. Con esiti paradossali. Nonostante la Brexit e la tradizionale nomea di «euroscetticismo», la Gran Bretagna diventerebbe il punto di riferimento per tutti quelli che non vogliono una Europa indifesa, in pasto ai lupi. La Gran Bretagna, guidata da un laburista, diventerebbe, plausibilmente, oltre che la guida morale, anche la forza trainante nel tentativo sia di sostenere l’Ucraina sia di creare la suddetta gamba europea. Mentre la Francia, l’altro Paese europeo che, insieme alla Gran Bretagna, non si è mai sognato di «mettere i fiori nei suoi cannoni», sarebbe lacerata tra l’esigenza di contribuire alla difesa europea e il richiamo della foresta, la volontà di una parte significativa dei francesi di non rinunciare al poco che resta dell’antica Grandeur e quindi alla piena indipendenza militare.
C’è anche da aspettarsi smottamenti nella maggioranza che al Parlamento di Strasburgo ha appena votato per Ursula von der Leyen. Tra i verdi ma anche tra i socialisti.
Le conseguenze sarebbero particolarmente gravi per le democrazie sorte dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale, Germania e Italia. Vale anche per l’Italia ciò che tempo fa scrisse uno storico tedesco, Michael Stürmer, a proposito del suo Paese: si tratta di democrazie che, anche per reazione al nazismo e al fascismo, hanno sostituito il commercio alla spada, hanno creduto, forti della protezione americana, di non aver bisogno di provvedere alla propria sicurezza costruendo, sia pure all’ombra della Nato, un solido e efficiente apparato di difesa militare. Una tendenza che si è rafforzata con la fine della Guerra fredda. Le classi dirigenti e le opinioni pubbliche tedesche e italiane hanno finito per credere che al mondo ci fossero solo amici con cui fare affari, nessun nemico (salvo qualche terrorista) da cui guardarsi.
Si tratta di una visione del mondo che in Italia e in Germania ha forgiato mentalità, ha alimentato un diffuso sentimento anti-militarista, ha reso l’opinione pubblica insensibile alle esigenze della sicurezza. Ed è diventata una componente delle rispettive identità nazionali. Per questo apparve clamoroso l’annuncio tedesco, subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, di un piano di riarmo. Mentre non stupisce che quella decisione non abbia fino ad oggi prodotto grandi risultati.
In Italia, in caso di vittoria di Trump, ci si può aspettare l’esplosione di un inedito conflitto. Con molti passaggi di fronte, da quello europeo all’antieuropeo (pro o contro la difesa europea) e viceversa. Occorrerebbe anche capire, dato il peso che le sue scelte hanno in Italia, come si posizionerebbe la Chiesa cattolica in quel conflitto. Se vince Trump ci attende uno psico-dramma. Meglio prepararsi.