Caro Ricolfi, Bobbio a stato un Maestro. Ma come teorico del liberalismo è ben lontano da Aron
Nel suo ultimo libro, Sinistra e popolo, Luca Ricolfi, che ritengo la mente pin lucida della sociologia-politologia italiana, scrive che Norberto Bobbio spese la parte centrale della sua vita nel “tentativo, tanto appassionato quanto vano di convincere i comunisti dell’alto valore delle istituzioni liberali, del carattere tutt’altro che formale delle libertà ‘borghesi'”.
Bobbio è stato, in campo intellettuale, uno di miei più importanti “ufficiali istruttori” – per le sue analisi concettuali, per le sue magistrali letture dei classici del pensiero politico, per le sue lezioni di metodo – ma, come teorico del liberalismo, non l’ho mai collocato sullo stesso piano di un Raymond Mon o di un Isaiah Berlin.
Difese, a vero, le libertà “borghesi”, sostanzialmente screditate (quando non dileggiate) dall’intellighenzia marxista – comunista e socialista precraxiana – ma, per adoperare une metafora architettonica, le considerò una sorta di Sagrada Familia – l’opera che Antoni Gaudi iniziò nel 1883 e che forse sarà completata solo nel 2026 – non una Basilica di San Pietro, ovvero un monumento in sé compiuto e non bisognoso di integrazioni e modifiche rilevanti.
Fuor di metafora, per lui la democrazia liberale (certo irrinunciabile) era l’inizio di un lungo, sofferto, cammino che avrebbe dovuto realizzare, attraverso le “generazioni dei diritti”, quell’eguaglianza che forse gli stava molto pin a cura della libertà.
Questo carattere di “incompiutezza” conferito alla “forma di governo” nata dalle rivoluzioni atlantiche, non va sottovalutato o riguardato come un accademico contenzioso all’interno della Repubblica delle Lettere, giacché introduceva una dimensione, p.c.d… “sostanzialistica” nell’interpretazione che ne dava it maitre-a-penser torinese.
In altre parole, per ricordare la critica – definitiva ed esemplare – di Benedetto Croce al “socialismo liberale”, per Bobbio, il pane delle libertà borghesi doveva essere integrato da un companatico senza di che il primo sarebbe stato quel pane condito solo dalla fantasia che il maresciallo Antonio Carotenuto (Vittorio De Sica) vide in bocca al povero manovale, nel grande film, di Luigi Comencini, “Pane, amore e fantasia” (1953).
Non è questione di parole, giacché dalla “filosofia politica”, che aveva in mente Bobbio, poteva derivarsi – come mostrano i percorsi di tanti suoi allievi torinesi e non – la delegittimazione etica (e persino giuridica, nel pensiero dei pasdaran della “Costituzione pin bella del mondo”) di ogni Sagrada Familia i cui lavori fossero interrotti dalla vittoria elettorale della -conservazione”.
Per non farla troppo lunga, per la sinistra gramsciazionista, se dai diritti politici” non si procede spediti sulla via che porterà all’eguaglianza – grazie ai “diritti sociali” – ci si troverà sempre dinanzi a una democrazia azzoppata e ingannevole, al servizio dei poteri forti e degli egoismi di classe.
A contare è la forma, non la sostanza. Il cuore dei liberaldemocratici, al contrario, batte non per la “sostanza” ma per le ”forme”, per il rispetto delle regole del gioco, che importa molto di più della squadra (progressista e conservatrice) che vincerà la partita.
Forse è difficile, per i popoli latini, appassionarsi per le “forme” e non esultare, ad esempio, per un’elezione truccata che facesse vincere le Forze del Bene ma, per un liberale “vero”, la vittoria di una buona causa ottenuta con mezzi illeciti non è una vittoria ma una sconfitta umiliante.
La libertà è un valore assoluto che va difeso anche se non porta (subito o non porta affatto) all’eguaglianza. Nel suo ultimo libro, Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia (Rubbettino), Guido Pescosolido ricorda che Gaetano Salvemini rifiutò il risultato elettorale che lo vedeva vincente, avendo saputo che era stato ottenuto con gli imbrogli.
“Il fine giustifica i mezzi” solo per i lettori superficiali del grande Segretario fiorentino.
Dino Cofrancesco, Il Foglio 25 aprile 2017