Lei è giornalista, è stato direttore del Resto del Carlino e di QN, poi, nella scorsa legislatura, senatore di Forza Italia. Infine, dopo la decisione di FI di togliere la fiducia a Draghi, di Azione. Ora è il nuovo segretario generale della Fondazione Einaudi. Ci può parlare del suo nuovo percorso?
Questa è la terza fase della mia vita, o, forse, la quarta, tenuto conto che fare il cronista è diverso dal fare il direttore. Eppure, c’è un filo rosso che lega tutte queste esperienze diverse. Ed è l’adesione al pensiero liberale, non come ideologia, ma come cassetta degli strumenti di pensiero, in senso einaudiano, per cercare di migliorare l’Italia, in modo pragmatico, verso una maggior efficienza ed efficacia. Per rendere questo Paese un po’ migliore.
Deluso o appagato dalla sua esperienza politica?
Non ci pensavo. Di solito un giornalista che prende la via della politica o sta per andare in pensione o sta per essere licenziato. Io come direttore del Carlino e di QN, all’epoca, tenevo i contatti con principali leader politici, faceva parte del mio lavoro giornalistico. In questo modo è arrivata la proposta di Silvio Berlusconi. Io, in principio, avevo pensato di non accettare. Ma poi, il giorno dopo, accettai. E non me ne sono pentito. Quella che è appena finita è stata la legislatura “più pazza del mondo”, nel senso che è partita con la vittoria – senza maggioranza – dei 5 Stelle ed è finita con Mario Draghi. La seconda Repubblica è finita proprio con la scorsa legislatura. Ora è iniziato un ciclo politico nuovo. La cosa anomala è che l’offerta politica è ancora quella del ciclo vecchio. Quindi ci saranno ulteriori cambiamenti. E io spero anche nell’assetto istituzionale, visto che sono ormai 40 anni che parliamo di riforme. Quindi una grande esperienza di vita. Con tanti ripensamenti. Le stesse cose viste da dentro sono diverse rispetto a come appaiono da fuori. E così, su molte cose, ho cambiato opinione.
La Fondazione è uno storico Think Tank di impronta liberale. Secondo lei perché in Italia ci sono così poche Fondazioni (a parte quelle messe in piedi per mere esigenze di finanziamento politico)?
La Fondazione Einaudi ha una storia gloriosa e festeggia quest’anno i 60 anni di vita. Fu fondata da Malagodi di cui detiene l’archivio. Abbiamo digitalizzato tutta l’Opera omnia einaudiana e stiamo per metterla online. Così chiunque potrà consultare il corpus dei testi di Einaudi anche facendo ricerche per parole chiave. E questo può essere utile alla diffusione del verbo einaudiano. Credi che mai come oggi istituzioni come la Fondazione abbiano una funzione storica. I centri che sono serviti a elaborare progetti politici, interventi governativi sul merito delle questioni sono tutti in crisi. Sono in crisi i partiti politici, i giornali non se la passano bene come un tempo, i parlamenti sono delegittimati ed esautorati dagli esecutivi; quindi, i governi e i ministri di volta in volta decidono sulla base delle emergenze senza avere una visione d’insieme, un retroterra culturale. Questo grande vuoto di analisi e conoscenze sul merito delle questioni deve essere riempito da istituzioni come la Fondazione Einaudi. Allo stesso modo la Fondazione deve avere, e spero avrà, un ruolo perché tutti si dicono liberali, ma pochi in Italia lo sono. Dobbiamo cercare di offrire al ceto politico una chiave liberale per risolvere problemi complessi. Sarebbe un “buon servizio alla Nazione”, come direbbe Giorgia Meloni.
Tra pochi giorni cominceranno le attività per celebrare i 60 anni della Fondazione. Ci può spiegare in cosa consistono?
Oltre alla messa online del corpus delle opere einaudiane, di cui abbiamo già parlato, tra il 30 di questo mese e il 1° dicembre organizzeremo una serie di importanti eventi in Senato. Verranno rappresentanti della Federazione delle fondazioni liberali europee, l’Elf, di cui la Fondazione Einaudi ha la vicepresidenza. È un network che dà forza alla nostra capacità d’analisi e ci consente di approfondire temi che ormai sono quasi tutti di dimensione almeno europea. Questo ci consente di avere interlocutori autorevoli in tutti i Paesi a cui fare riferimento per approfondimenti scientifici.
Perché l’Italia ha bisogno delle idee liberali?
Proprio perché le idee liberali ci appartengono poco. Abbiamo tante anomalie e siamo un paese tendente all’estremismo come carattere nazionale. Nella nostra storia repubblicana la cultura politica è stata egemonizzata da due filoni culturali, rispettabili entrambi ovviamente, ma che di liberale avevano poco. Intendo quello cattolico e quello socialista e poi comunista e, infine, socialdemocratico. Il pensiero liberale è sempre stato incarnato da personalità autorevolissime, ma è sempre stato minoritario, forse anche a causa della mancata riforma protestante. Ci sono radici storiche che potrebbero essere utilizzate per spiegare l’anomalia. Ma il fatto rilevante è che l’anomalia c’è e che in un mondo dove, a torto o a ragione, gli stati nazionali sono sempre più spogliati di competenze sovrane, c’è bisogno di un approccio liberale verso i problemi. Einaudi teorizzava l’Europa unita già nel 1919. Fu un precursore. Già allora sosteneva che la dimensione dello Stato sovrano era un’impostura. E oggi è vero più che mai. Quindi, da un lato il metodo liberale – il liberalismo non è un’ideologia è un metodo, un modo di affrontare i problemi – e dall’altro l’approdo europeista dovrebbero essere i due pilastri su cui qualsiasi governo oggi in Italia dovrebbe muoversi.
Liberalismo e populismo. Secondo lei è una polarizzazione più importante di quella destra-sinistra, oppure, conservatorismo-progressismo, oppure no?
L’antitesi è populismo-pluralismo. Il populismo, che può essere declinato da destra o da sinistra, è la pretesa di avere la verità in tasca. Il liberalismo è esattamente il contrario. Einaudi su questo insisteva moltissimo: serve il confronto tra idee diverse, c’è bisogno del Parlamento come luogo dove ci si parla e ci si convince, in alcuni casi, a partire da tesi contrapposte. Il vero bipolarismo, da alcuni anni, è quello tra demagogia e realismo. Esiste la demagogia di destra di cui spesso si parla, ma esiste anche la demagogia di sinistra che non è meno dannosa. È un lusso che non possiamo più permetterci, diciamo. Oltre un certo livello la demagogia rende la politica impotente. Ed è quello che è successo nell’arco della scorsa legislatura, tant’è che alla fine c’è stato bisogno di un premier tecnico. Ed è quello che rischia di succedere di nuovo se i partiti non abbandoneranno una quota significativa di propaganda e di demagogia per aderire il più possibile alla realtà. I voti possono essere interpretati come un fine o come un mezzo. Un liberale li interpreta come un mezzo per realizzare cose. Un demagogo li interpreta come un fine in sé. E quindi, alla fine, li rende inutili. Non ci fai nulla perché non li trasformi in azione politica concreta.
La cultura liberale dovrebbe avere una “vocazione maggioritaria”? O, sarebbe meglio, visto che si tratta di una tradizione importante ma che non fa il pieno di consensi, cercare di costruire alleanze con le culture affini?
Beh, sarebbe bello se la cultura liberale diventasse maggioritaria. Vivremmo in un Paese migliore, dove si dicono meno bugie e si ingannano meno gli elettori. E anche se stessi, visto che è tipico dei leader politici convincersi intimamente della giustezza di quello che gli conviene, spesso prendendo cantonate colossali. Quindi l’obiettivo di rendere la sensibilità liberale maggioritaria è un obiettivo da perseguire. Non so se è realistico, ma sono certo che se questo obiettivo fosse raggiunto vivremmo tutti in un Paese migliore.
Più specificamente – tenuto conto del voto regionale – pensa che siano possibili alleanze per battere l’attuale maggioranza di destra-centro? Oppure è meglio cercare, appunto, una maggioranza in un’ottica del Terzo Polo?
Io credo che il cosiddetto Terzo Polo faccia bene a non associarsi a carrozzoni elettorali trainati dai cavalli della demagogia. Quanto più si riuscirà a imporre a due coalizioni un po’ raffazzonate e a quel poco che le unisce un approccio realista ai problemi, tanto più si farà un buon servizio al Paese.
Risposta molto diplomatica… ma se si rimane da soli si perde con questo sistema elettorale.
Lo so, ma torno al discorso di prima. Vincere o perdere non ha un gran valore. Il punto vero o governare bene o non governare. Credo che sia più importante il passaggio preliminare, cioè creare le condizioni per un buon governo. E, perché si possa governare bene, bisogna che ci sia una cultura politica comune, una visione, delle sensibilità comuni tra alleati. Sennò vinci, ma hai il potere e non il governo. Sono due cose diverse. E non vanno confuse.
L’intervista di Paolo Ferrandi su La Gazzetta di Parma