Sergio Ricossa occupa un posto di grande rilievo nell’albero genealogico della cultura liberale italiana. Egli si colloca dopo Luigi Einaudi e Bruno Leoni. E’ colui che ha fatto da punto di riferimento a tutta una generazione, cresciuta in una fase della vita sociale in cui ogni cosa sembrava negare l’idea della libertà individuale di scelta. Erano anni in cui non si parlava più di limitazione del potere. Si aspirava invece al “governo onnipotente” che avrebbe riplasmato la condizione umana e ci avrebbe affrancato dalla scarsità e da ogni “problema maledetto”. Dominava un semplicismo dogmatico, totalmente chiuso alla possibilità di comprendere che già il solo mantenimento della civiltà è un compito “superlativamente complesso”. E Ricossa, che con la sua parola e con i suoi scritti si è sempre soffermato sui paradossi etici, ha cioè giudicato le azioni dalle loro conseguenze e non dai propositi dichiarati dagli attori, è stato visto come un “rottame accademico”. Sappiamo come poi sono andate le vicende storiche. E conosciamo l’insincera corsa di molti a dichiararsi liberali. E’ stato un capovolgimento repentino e, in alcuni casi, addirittura sconcertante. Ricossa lo ha commentato nei seguenti termini: “Confesso di sentire un certo fastidio quando mi accorgo che ex avversari, i quali nemmeno mi parlavano (salvo gli insulti) […] adesso mi parlano, sono sulle mie posizioni o, addirittura, mi hanno scavalcato […]. Mi parlano per farmi la morale, per spiegarmi ciò che io sostenevo vent’anni prima di loro, per dirmi che sono sempre loro ad aver ragione, anche se sostengono l’esatto opposto di quanto sostenevano […]. Mai nessuno di costoro ha ammesso: ‘Mi sono sbagliato’. Al contrario, si rivolgono a me come fossi io l’errante e, con l’aria di aver fatto una grande scoperta, mi insegnano solennemente che, per esempio, l’economia non può funzionare senza mercato”. La scelta liberale di Ricossa risale agli anni della sua adolescenza. Come egli stesso ha ricordato, “a scuola non si sceglie la materia preferita, si sceglie il docente preferito”. E Ricossa, avendo scelto un liberale, il professor Francesco Palazzi, è divenuto anche lui liberale. Ha conseguito poi la laurea in Economia, sotto la guida di Augusto Bordin, nella sua Torino. E in quella università ha percorso tutta la sua carriera accademica: da assistente volontario fino alla titolarità della cattedra di economia, conseguita dopo essere stato “ternato” assieme a Venerio Del Punta e Luigi Spaventa. La prima formazione economica di Ricossa si è svolta all’insegna della teoria dell’equilibrio economico generale. Il paretiano de Pietri-Tonelli aveva fortemente influenzato Bordin; e Bordin ha influenzato l’allievo Ricossa. (…) Quest’ultimo amava definirsi “liberista”.E alcuni commentatori lo hanno ricordato come un “liberale liberista”. Sembra che in queste due definizioni ci sia accordo. Ma non è così. Ricossa si definiva “liberista” per porre in evidenza l’impossibilità di escludere la libertà economica dalle condizioni che rendono possibile o impossibile la libertà individuale di scelta. Anche i commentatori hanno posto l’accento sul suo “liberismo”. Ma lo hanno fatto con lo scopo di annoverarlo fra quei particolari liberali che pretendono, oltre alla libertà politica e culturale, la libertà economica. L’interrogativo è allora d’obbligo: è possibile la libertà individuale di scelta senza la libertà economica?
Se nel nostro paese non si fosse affermata l’illusione crociana, secondo cui “l’idea di libertà può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà della terra e delle industrie”, un simile interrogativo sarebbe del tutto improponibile. E tale lo ha giudicato Ricossa, che ha attribuito a Benedetto Croce la responsabilità di una cultura “incapace” di darsi conto della funzione svolta dalla libertà economica. Com’è noto, Luigi Einaudi si è ripetutamente contrapposto a Croce. Utilizzando nulla più che il buon senso, ha insistito sull’impossibilità di avere la libertà individuale di scelta senza la libertà economica. Avrebbe potuto rammentare che già nel Seicento James Harrington e Francois Bernier avevano richiamato l’attenzione sulle conseguenze derivanti dalla soppressione della proprietà privata. E avrebbe potuto attingere argomenti anche dai “nemici della società aperta”: perché costoro, da Platone in poi, si sono sempre proposti come primo obiettivo l’abolizione o il minuzioso controllo della proprietà privata, che è per l’appunto la base dell’autonomia economica e della libertà di scelta. Il fatto è che, per conseguire i nostri fini (siano essi materiali o ideali), abbiamo bisogno di disporre di risorse. Se viene meno tale disponibilità, “ogni possibilità di pensare, di parlare e di operare” in modo difforme da quanto stabilito dai detentori del potere politico diviene una pura illusione.
Stando così le cose, non può esistere un liberalismo privo della libertà economica. Molti pensano però esattamente il contrario. Il che avviene sicuramente perché sulla nostra cultura pesa ancora l’ipoteca crociana. Ma, più in generale, per la ragione che ha scritto Joseph A. Schumpeter, “come elogio supremo, sia pure involontario, i nemici del sistema dell’iniziativa privata hanno ritenuto opportuno appropriarsi della sua insegna”, hanno cioè voluto dichiararsi liberali. E ciò fornisce uno spazio a coloro che, pur non volendo formalmente abolire la proprietà privata, ritengono che la nobiltà e la virtù della politica debbano prevalere sulla prosaica attività economica; a quanti credono che il mercato debba essere “controllato”; a quelli che presumono di possedere una conoscenza superiore a quella resa disponibile dal libero processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori; e che pensano che la cooperazione sociale volontaria debba essere “guidata” dalle loro menti illuminate, alle quali soltanto è dato conoscere l’interesse pubblico. Il che in realtà è poi il conseguimento “protetto” dei propri interessi e di quelli dei gruppi contigui.
C’è qui un grosso fraintendimento. La parola “mercato” è uno “stenogramma”, che sinteticamente indica l’attività di tutti coloro che cooperano volontariamente. Per Ricossa, il mercato siamo noi, nel momento in cui ci scambiamo reciprocamente beni e servizi. E’ vero: gli esiti prodotti dalla libera cooperazione sociale possono non piacerci. Ma controllare il mercato significa manomettere la libertà individuale di scelta. E’ coerente? Dobbiamo porci degli altri interrogativi.
Se il processo democratico consegna il potere alla parte politica che non riceve il nostro consenso, dobbiamo intervenire per correggere tale risultato? Dobbiamo sottoporre a controllo la democrazia? Se non facciamo ciò nei confronti del processo democratico, dove la minoranza subisce le decisioni della maggioranza, non si comprende perché dobbiamo farlo nel caso del mercato, dove le decisioni degli altri non impediscono ad alcuno di esercitare in modo diverso la propria libertà di scelta. E’ questo un punto su cui Ricossa si è trovato d’accordo con Ludwig von Mises e Bruno Leoni.
E non solo. Impedire che il processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori si svolga liberamente significa condannare il proprio paese al declino. A Ricossa non è ovviamente sfuggito che il “controllo” del mercato “all’interno di una singola società” comporta la caduta della produttività e del prodotto. E non è sfuggito che l’interventismo alimenta una corsa ai privilegi. Il che costituisce una vera e propria aggressione al “governo della legge”, perché coincide con l’allocazione politica o, per meglio dire, clientelare delle risorse. Si crea in tal modo l’habitat dentro cui si rende più facilmente possibile l’attività del demagogo e dell’avventuriero. E bisogna subire i connessi fenomeni degenerativi della vita pubblica.
Aristotele aveva una conoscenza molto limitata dei fenomeni economici. Ma ciò non gli ha impedito di comprendere che la “politica e l’economia sono due scienze necessariamente distinte”, per la ragione che le “figure del politikós e dell’oikonomikós, del politico e dell’amministratore della casa, sono altrettanto necessariamente distinte”. Come dire che lo stato è, e si definisce, “politico” perché non è “economico”; è distinto “dalla ‘casa’ e dalla sua ‘amministrazione’, ovvero dall’economia in quanto tale”. Non a caso lo stesso Aristotele ha affermato che “è un uso linguistico non appropriato quello di coloro che credono di poter stabilire l’identità tra il governante […] e il proprietario, ritenendo che le loro differenze si basino solo sul maggior o minor numero di persone alle quali sono preposti e non sulla specificazione delle loro funzioni”. Aristotele temeva che la pólis si potesse trasformare in oikía, in un grande meccanismo di allocazione politico-clientelare delle risorse. In tale situazione, “si regola tutto con decreti […, ma] nessun decreto è universale”. Ossia: dal “governo della legge” si passa al “governo degli uomini”. E la legislazione, come hanno sottolineato Hayek e Leoni, prende il sopravvento sul diritto. E’ il regno degli “avventurieri”, che non vivono dei servizi resi in forma competitiva ai consumatori, ma di privilegi e di prede. Non badano alle conseguenze di medio e lungo periodo. L’unica loro preoccupazione è trarre immediato vantaggio dal connubio fra politica ed economia. Il che cancella ogni forma di limitazione del potere pubblico, restringe sempre più la sfera dell’autonomia individuale e colpisce irreparabilmente il nostro benessere.
L’impegno civile
Ricossa ha svolto una vasta attività pubblicistica. L’ingresso nella Mont Pèlerin Society gli ha consentito di acquisire una teoria della libertà di respiro internazionale, che ha cercato in tutti i modi di divulgare e di opporre alla montante marea di “condanne” rivolte alla società di mercato. E’ in tale prospettiva che si deve vedere il lavoro che egli ha dedicato alla decifrazione di “Produzione di merci a mezzo di merci”, l’opera pubblicata da Piero Sraffa nel 1960, con l’ambizioso intento di essere una “critica della teoria economica”. Quella che Ricossa ha chiamato la “sraffamania” è durata circa vent’anni. Chi con una diversa formazione è entrato in quel periodo all’Università sa quanto ossessivi e deludenti si siano mostrati alcuni corsi di economia. Al che si è aggiunto il dominio del luogo comune. Studiosi di altre discipline, ignari di qualunque teorema economico, si sono comportati come gusci portati dalla corrente. E, con grave irresponsabilità intellettuale, hanno premurosamente individuato in “Produzione di merci a mezzo di merci” la pietra tombale dell’intera teoria economica “borghese”.
Ricossa è stato lo studioso a cui molti di noi hanno guardato per avere una risposta e un diverso orientamento culturale. Ed egli non ha mancato di caricare sulle proprie spalle la questione sraffiana. Si è dedicato per cinque lunghi anni al problema. E ha constatato che nello schema di Sraffa ci sono tante equazioni quante sono le merci. “Ma le incognite sono di più, perché sono incogniti tanti prezzi quante sono le merci, più il prezzo del lavoro o salario, e più il tasso di profitto […] Essendoci meno equazioni che variabili incognite, esistono dei gradi di libertà, che gli sraffiani [… hanno presentato] come aperti alla contrattazione sindacale”. Di qui l’idea del salario come variabile indipendente. E Ricossa ha annotato: “Forse [… i sindacalisti] non avevano letto Sraffa, ma ne avevano assimilato in qualche modo l’insegnamento”. L’interrogativo che qui bisogna allora porsi è il seguente: tutto ciò significa che l’economia di mercato sia indeterminata? Nient’affatto. Significa solamente che lo sono gli schemi sraffiani.
Le critiche rivolte da Ricossa all’opera di Sraffa si possono considerare come degli strumenti tramite cui sottrarsi al dominio di una “bolla” mediatico-culturale. Sono una manifestazione di quell’impegno civile che ha pure portato lo stesso Ricossa a partecipare alla “marcia contro il fisco”, tenutasi nel 1987 a Torino e che ha mobilitato quasi quarantamila persone. Bisogna poi aggiungere i numerosi saggi e la quantità sterminata di editoriali, elzeviri, recensioni, mediante cui egli ha instancabilmente divulgato i princìpi del liberalismo e ha commentato senza sudditanze le vicende economico-politiche della vita italiana. Non ha mai giustificato le nefandezze di alcuno o accarezzato i “vizi” della classe dirigente. Le sue riflessioni, si pensi soprattutto a quelle contenute in “Come si manda in rovina un paese”, costituiscono una dissacrante controstoria. Sono l’individuazione di errori ripetuti con ostinata monotonia, la spiegazione di un disastro in cui non c’è l’elevatezza umana venuta a fallimento. Gli attori non hanno il temperamento dei protagonisti del dramma. Privi di un minimo senso di responsabilità verso il proprio compito, sono farsescamente mossi da luoghi comuni e da interessi ridicoli rispetto alla posta in gioco. E tutto, senza che essi se ne rendano conto, scivola lentamente in una tragedia senza qualità, fatta di gozzoviglia finanziaria, regresso economico e mancanza di futuro per le nuove generazioni.
Negli scritti di Ricossa, c’è la vasta cultura di uno studioso che non si è mai rinserrato dentro le strette frontiere della propria disciplina. C’è l’ironia di cui sono capaci le menti acute. E c’è un’ineguagliabile capacità di scrittura. Tullio De Mauro ha affermato che Ricossa appartiene alla schiera degli “autentici scrittori”, all'”alta letteratura”. Indro Montanelli ha paragonato la prosa ricossiana a quella di Montaigne, Voltaire, Renard. Più appropriato mi sembra il paragone con il Tocqueville dei “Souvenirs”, con il liberale capace di presentare gli avvenimenti del ’48 francese come la “parodia” di altre più autentiche vicende, come una “cattiva tragedia” recitata da “istrioni di provincia”.
Come tutti i veri docenti, Ricossa ha saputo dare ai suoi allievi. Ha dato anche a coloro che non hanno potuto seguire i suoi corsi. Fra questi, mi trovo anch’io. Appartengo alla generazione che ha avuto da lui un orientamento culturale e una spinta ad andare avanti. E tutti noi lo abbiamo percepito come quel maestro di liberalismo di cui tante facoltà universitarie erano prive. Ecco perché si può dire nei suoi confronti quel che egli ha scritto a proposito del grande Ludwig von Mises: “E’ stato il garante della speranza che di fatale vi è nulla e che la libertà ha un futuro”.
Ricossa è stato accademico dei Lincei. E tuttavia, com’è facilmente comprensibile, coloro che hanno vestito i paramenti del potere pubblico non hanno riservato al suo lavoro alcun riconoscimento. E’ pure probabile che, se ciò fosse stato fatto, egli se ne sarebbe sottratto. Ricossa ha identificato la libertà individuale di scelta con l’unica condizione umana meritevole di essere vissuta. Il liberalismo è stato perciò la sua vita, e non uno strumento mediante cui mettere le distante fra sé e gli altri. Sapeva bene in che cosa consiste il ridicolo. Lo ha impeccabilmente rilevato in molti boriosi burocrati dell’Università e in scadenti personaggi del suo tempo. E ha vissuto in un altro territorio. Si è speso nell’esercizio della ragione critica: una funzione scomoda, che non piace a molti, ma di cui abbiamo bisogno per svegliarci dal “sonno dogmatico” della stagnazione e del declino.
di Lorenzo Infantino