Superate le emergenze, non si torna mai al punto di partenza: è facile istituire nuovi enti e decidere nuovi interventi, ben più difficile cancellarli
Se il passato ci insegna qualcosa, lo Stato tende a crescere nelle crisi. In emergenza si allargano i cordoni della borsa ma soprattutto si amplia il perimetro dei pubblici poteri. Superato il peggio, non si torna mai al punto di partenza: è facile istituire nuovi enti e decidere nuovi interventi, ben più difficile cancellarli. Nell’anno della pandemia, i governi hanno messo in campo ulteriore spesa pubblica per circa il 16% del Pil mondiale.Come giustamente ci ha ricordato l’ Economist con la sua copertina della settimana scorsa, si tratta di un picco ma non di un fenomeno nuovo. La spesa tende a aumentare come per inerzia: nei Paesi ricchi, allo Stato chiediamo sempre di più. L’invecchiamento della popolazione si traduce in aumenti di spesa quasi automatici. La burocrazia sostiene pervicacemente che, se qualcosa non funziona nel pubblico, è solo perché non è stato finanziato a sufficienza.
Più grande è lo Stato e più i gruppi d’interesse, che siano «i sindacati favoriti dalla sinistra o gli amici della destra nel mondo degli affari», cercheranno di «catturarlo», volgendolo a proprio vantaggio. Anche per questoun’impronta più vasta del pubblico nell’economia implica meno efficienza, meno dinamismo e più privilegi. Se a questo aggiungiamo il fatto che il crescente debito pubblico costituisce un’ipoteca sulle nuove generazioni, si capisce perché, come sostiene il settimanale britannico, proprio questo è il momento di interrogarsi «su che cosa deve fare lo Stato».
La domanda rischia di cadere nel vuoto. Se continuiamo a parlare di Reagan e Thatcher, e se restano due spauracchi dei partiti di sinistra, è proprio per la loro eccezionalità, in quella lunga marcia che ci ha portato ad avere Stati che pesano grosso modo la metà del prodotto interno lordo. Rispondere a qualsiasi problema aumentando la spesa o facendo una nuova legge richiede poca fantasia e funziona per guadagnare, almeno nel breve termine, consenso. Perché gli uomini politici facciano qualcosa di diverso debbono avere anzitutto l’impressione che gli elettori glielo stiano chiedendo.
In passato, sono stati i cosiddetti «ceti produttivi» e soprattutto la borghesia piccola e media a credere che lo statalismo ne ostacolasse la prosperità. Forse altrove è ancora così: il leader dei liberali tedeschi Lindner farà il ministro dell’economia, nel nuovo governo coi socialdemocratici, anche perché in quel Paese i risparmiatori avvertono la minaccia delle politiche monetarie non convenzionali e delle scelte di spesa che esse rendono possibili.
I liberali alle elezioni tedesche hanno conquistato circa il 20% dei ragazzi che si recavano per la prima volta alle urne, in Italia l’unico a usare ancora l’aggettivo è un ultraottantenne, Berlusconi. Che oggi abbraccia il reddito di cittadinanza non solo per immaginarsi con più convinzione candidato al Quirinale: ma forse perché convinto che i suoi stessi elettori, i quali ieri chiedevano regole più semplici e tasse più basse, oggi hanno bisogno di sentirsi protetti e rassicurati.
Per avere uno Stato leggero serve una società pesante: una società fatta di persone che abbiano voglia di essere più autonome, artefici del proprio destino; e che, se necessario, siano capaci di prendersi cura di chi sta peggio. Cosa che il nostro Stato tentacolare spesso non sa fare. Come testimoniano le sempre nuove richieste di intervento e aiuto, a loro modo rivelatrici dell’incapacità di sintonizzare la spesa sui bisogni. Il nostro è sempre più uno statalismo inerziale: non rivela un Paese solidale, ma la nostra pigrizia intellettuale e l’atrofizzazione dei corpi intermedi.