Già nel Manifesto di Ventotene, stilato nell’ambiente dell’antifascismo nel 1942, si individuava nei cosiddetti nazionalismi il motivo principale della crisi della civiltà europea che aveva fatto conoscere al nostro continente i totalitarismi prima e una sanguinosa e tragica guerra mondiale, ancora in corso, poi.
I nazionalismi, in questa prospettiva, da una parte erano connaturati allo Stato nazione, dall’altra imponevano una federazione di Stati, cioè la creazione di un Super Stato europeo che centralizzasse il potere e superasse in un’ottica dirigistica e socialistica la vecchia forma del potere.
Una considerazione di come avrebbe dovuto essere questo futuro Stato europeo secondo gli estensori del testo, cioè appunto socialista e fortemente centralizzato e burocratizzato, ci fa capire tutti i vistosi limiti dell’analisi che ne era alla base.
E che, nel crearsi il feticcio di un nazionalismo aggressivo, non voleva fare i conti con la vera novità intervenuta nel Novecento: la messa in scena di una “politica delle idee” o ideologica che, avviata a sinistra, era stata fatta propria anche a destra dai fascismi e dal nazismo, che, come aveva intuito Friedrich von Hayek (e prima di lui Benedetto Croce), era sì un nazionalismo ma con inediti e forti tratti socialisti. I federalisti non volevano che continuare a socializzare.
Quanto agli Stati nazione, gli estensori non consideravano una questione fondamentale, cioè che essi avevano dato buona prova di sé nell’Ottocento, che non a caso è considerato ancora oggi il secolo del liberalismo e del costituzionalismo par excellence, quello in cui le libertà, pur in un contesto elitario, si sono istituzionalizzate e diventate lo “spirito comune” dell’Occidente: quello che ne ha fatto la sua forza e ha contribuito a “esportare” la civiltà in tutte le lande del mondo (lo stesso colonialismo, in quest’ottica che è oggi propria della più accorta storiografia, anche se è osteggiata dalle centrali mondiali del politicamente corretto, ha avuto più aspetti positivi che negativi).
Il fatto è che lo Stato nazionale è nato ed è stato teorizzato, in prima età moderna, proprio come un meccanismo che, mercé il monopolio legittimo della forza, potesse garantire la sicurezza e la vita (Hobbes), ma anche la libertà e la proprietà (Locke), dell’individuo. Il quale è anch’esso in certo modo, pur avendo le basi nella “persona” cristiana, una “invenzione della modernità”.
Stato e Individuo sono, da questo punto di vista, i termini di una diade: si sorreggono a vicenda. Non si può abbattere l’uno senza abbattere l’altro. Certo, proprio la “finzione” concettuale che è alla base dello Stato moderno, ne denota il proprio senso strumentale.
Lo Stato è stato un ottimo strumento per garantire pace, libertà, sicurezza, sviluppo: tutte le conquiste della modernità.
Ma esso, proprio in quanto strumento, “mezzo per”, cioè per la libertà dell’individuo, non può assurgere a feticcio nemmeno nel senso positivo del termine: gli strumenti vanno sempre commisurati ai tempi, alle concrete situazioni storiche.
Né un feticcio in positivo, né in negativo: non esiste nessuna struttura interna al dispositivo che lo faccia essere di per sé foriero di illibertà.
Il vero nemico da combattere è non lo Stato ma lo statalismo, che è poi null’altro che il voler affidare allo Stato, semplice garante delle libertà umane, compiti di redistribuzione e di trasformazione socialista.
Quanto alla Nazione, essa è stata lo strumento, anch’esso transeunte, con cui il liberalismo ha contrastato le pretese illuministiche di una Ragione pianificante che non voleva tenere nel debito conto la storia, cioè gli usi, abitudini, costumi, della gente semplice e dei popoli.
Nulla è definitivo su questa terra, ma, se il nostro fine è il liberalismo, ovvero la libertà dei singoli, dobbiamo valutare sempre tutte le conseguenze delle nostre azioni. Evitando di perdere la libertà con avventati “salti nel buio”. [spacer height=”20px”]
Corrado Ocone, L’Intraprendente 12 ottobre 2017