Qualche giorno fa nel carcere di Benevento un detenuto s’è impiccato in cella. Ne sono derivati disordini accesi da due suoi compagni e, fra i tanti, un dettaglio non è sfuggito ai frequentatori di internet: i due avevano aperto la rivolta con atti di autolesionismo. Qualcuno si è domandato che altro ci si possa aspettare da chi protesta facendo male a sé stesso: uno così non può che finire in prigione. È un ragionamento molto comune, e ci illustra la sorte di essere nati in tempi stupidi, e non in altri più scellerati. Qui si era già scritto della volta in cui Hannah Arendt precisò il senso della banalità del male – allora, e spesso in seguito, disastrosamente frainteso – raccontando di un contadino tedesco cui erano stati affidati dei prigionieri russi. Li rinchiuse nella porcilaia e dopo qualche giorno li mostrò a un visitatore mentre contendevano il cibo ai maiali. Il contadino ne aveva tratto la conferma che i russi erano del livello delle bestie. Non gli era passato per la testa che contendevano il cibo ai maiali perché erano nella porcilaia, e fuori di li non glielo avrebbero conteso affatto. Come i nostri commentatori da tastiera, e saranno tutti brave persone, miti, beneducate, e lo si sostiene senza ironia, ma non prendono in considerazione l’ipotesi, piuttosto solida, che i detenuti praticano l’autolesionismo perché sono nella disumanità delle nostre carceri, e non sono in carcere perché sono spostati al punto da praticarlo. Quando giudichiamo gli uomini del passato con compiaciuta spietatezza, bisognerebbe pensare alla fortuna di vivere tempi in cui la banalità del male si esaurisce in un tweet.
Mattia Feltri
La Stampa, 5/09/20
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