Dario Antiseri, dal Giornale del 21 agosto 2016
Contro gli statalisti e contro i monopolisti, il liberale è liberista difende cioè l’economia di mercato perché questa, in primo luogo, genera il più diffuso benessere. Ma ci sono altre e più importanti ragioni per cui va difesa l’economia di mercato.
L’economia di mercato vuol dire, prima di ogni altra cosa, proprietà privata dei mezzi di produzione. Ed è esattamente la proprietà privata dei mezzi di produzione a garantire, nel modo più sicuro, le libertà politiche e i diritti individuali. Difatti, come ha scritto Hayek, «chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini». Ed uno Stato dove non esiste la proprietà privata è uno Stato in cui sono automaticamente cancellate tutte le libertà fondamentali. Ci ricordano Mises ed Hayek: a che vale scrivere su di un pezzo di carta che c’è libertà di stampa, quando tutte le cartiere e tutte le tipografie appartengono allo Stato, cioè alla cricca al potere? Non è forse un inganno – come di fatto lo è stato – stabilire su una Carta costituzionale che è garantita la libertà di riunione, se poi tutti i locali, comprese le chiese, appartengono allo Stato? La verità è che: economia di mercato e stato di diritto vivono e muoiono insieme.
Il liberale sa che l’economia di mercato presuppone e genera valori. L’economia di mercato genera il più ampio benessere. Sta a fondamento delle libertà politiche. Esige la pace interna ed esterna, poiché altrimenti si distruggerebbe la condizione minimale che rende possibile la cooperazione in regime di divisione del lavoro. A nessuno è lecito scambiare il «profitto» con il «saccheggio». Commercium et pax era scritto sul porto di Amsterdam. Ludwig von Mises afferma che «la pace è la teoria sociale del liberalismo». E, prima di lui, Frédéric Bastiat: «Se su un confine non passano le merci, vi passeranno i cannoni». Insomma: la libertà economica, vale a dire la «logica di mercato», genera la più ampia prosperità; è inscindibilmente connessa alle libertà politiche; esige la pace.
«Non c’è dubbio – ha scritto Werner Sombart – che il capitalismo è opera di singoli uomini di eccezione». E tre sono, a suo avviso, le principali qualità che l’imprenditore deve possedere. L’imprenditore deve essere:
– accorto: «vale a dire rapido nella concezione, acuto nei giudizi, perseverante nei propositi e dotato dunque del sicuro senso dell’essenziale, che lo farà capace di riconoscere il Kairòs, cioè il momento giusto»;
– abile: «vale a dire capace di divenire conoscitore di uomini e conoscitore del mondo. Sicuro nel giudicare, sicuro di sé nel trattare con gli altri, sicuro nel valutare qualunque situazione, esperto soprattutto delle debolezze e dei difetti del suo ambiente»;
– ingegnoso: «deve essere ricco di idee, di trovate, ricco di quel particolare genere di fantasia che il Wundt chiama Kombinatorisch».
A questa lista di qualità che Sombart attribuisce all’imprenditore si può e si deve aggiungere la capacità di ascolto: ascolto di alternative e critiche alle sue proposte. Raccomandava Seneca: quando un tuo amico ha delle responsabilità, l’unico dono che tu gli puoi fare è una critica. L’imprenditore ha bisogno di amici del genere e non di servi; deve circondarsi di amici e non di «servi» – i quali, in genere, servono pensando al regno.
La figura dell’imprenditore, di quell’innovatore capace di «distruzione creatrice», il quale crea ricchezza e posti di lavoro, ha attraversato il deserto dell’impopolarità. Tutta una mitologia ideologica ha visto nella competizione una giungla, nel profitto un furto, nell’imprenditore un ladro. Come sottolineato da Joseph Schumpeter, tra il migliore imprenditore e il più spietato feudatario, gli storici ci dicono che è quest’ultimo che è riuscito «non solo a impressionare di più ma anche ad essere amato». Sennonché, ai nostri giorni – soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica – i meriti dell’imprenditore vengono sempre più ampiamente riconosciuti nella motivata metamorfosi dall’idea del «padrone sfruttatore» nell’idea del «costruttore di pubblico benessere».
È così, allora, che fa riflettere la convinzione – apparentemente «paradossale» se non addirittura «scandalosa» per ancora tanti – di George Gilder secondo cui all’interno del capitalismo sono fortemente attivi i germi dell’altruismo, e ciò nel senso – come egli scrive in Wealth and Poverty (1993) – che alla base della libera impresa ci sarebbe una «cultura del dono». «Il capitalismo – afferma Gilder – inizia con il dare. Non dall’avidità, dall’avarizia, e nemmeno dall’egoismo ci si può attendere un ritorno commerciale, ma da uno spirito strettamente affine all’altruismo, da un’attenzione ai bisogni degli altri, da una benevola, socievole e coraggiosa disposizione dell’anima». La dinamica economica scaturirebbe dalla libera e consapevole decisione di «offrire» la propria competenza, la propria creatività, il coraggio di fronte al rischio, nella speranza-aspettativa, che non sarà mai certezza, di un vantaggioso ritorno.
E lo strumento che può rispondere alle necessità della vita quotidiana, ai problemi, ai bisogni e alle preferenze della persona è l’impresa – una realtà la cui esistenza e il cui funzionamento sono frutto di elementi materiali e spirituali: risorse finanziarie, conoscenze, creatività, senso di responsabilità, capacità organizzative, disponibilità ad assumersi ragionevoli rischi imprenditoriali. Scrive ancora Gilder in Human Capital (1997): «Il fulcro morale del capitalismo è l’indispensabile altruismo dell’impresa. L’evidenza antropologica mostra che il sistema inizia non con l’avidità che provoca guerre tribali, ma con il dono che le previene. Il capitalismo non inizia con il prendere ma con il dare». E in una situazione del genere vale per l’imprenditore il consiglio che più di ottant’anni fa Schumpeter dava agli imprenditori tedeschi, nel senso che ogni imprenditore deve imparare che «non basta aumentare realmente il livello dei salari grazie al suo impegno produttivo, ma occorre anche che la gente gli creda, creda cioè al fatto che egli lavora per essa anche quando apparentemente lavora per se stesso».
Tutto ciò per dire che «qualsiasi interesse, se vuole imporsi, deve sapere reclutare». E se è ben vero che non sempre e non tutti gli imprenditori sono accorti, abili, ingegnosi, desiderosi di critiche ed impermeabili alla corruzione, è altrettanto vero – per dirla con Michael Novak – che «la strada che più e meglio conduce i popoli al benessere, elevandone maggiormente il tenore generale di vita, non è il sistema economico socialistico ma quello capitalistico». Certo, le società che hanno abbracciato l’economia di mercato non sono il paradiso, ma sicurissimamente non sono quell’inferno da cui anche i più loquaci e infervorati anticapitalisti abbiano mai fatto o facciano il benché minimo sforzo per uscire. John Stuart Mill: «Se la concorrenza ha i suoi difetti, essa previene pure mali peggiori».
Un’ultima annotazione. È bene che si dia onore a cittadini che hanno dato buona prova di sé, per esempio nello sport, nel lavoro o nei vari ambiti della cultura. E in tali cerimonie non è mancata e non manca mai la sfilata dei politici. Ma come mai – viene da chiedersi – non si sono mai visti i responsabili della nostra politica ai funerali degli oltre cinquecento «facitori di pubblico benessere» che politiche fiscali predatorie, un sistema burocratico asfissiante e fonte inesauribile di corruzione e un sistema creditizio non di rado in mano a incompetenti irresponsabili, hanno spinto al suicidio?