In questa fase di crescita asfittica, gli iscritti al partito della spesa aumentano. Sono, infatti, sempre più numerosi coloro che ritengono che uno Stato che spende possa essere la soluzione ai problemi di un paese come l’Italia che, va ricordato, nel biennio 2014-2015 in termini di sviluppo è stata il fanalino di coda insieme alla Grecia: entrambe le economie sono cresciute dello 0,3 per cento, quattro volte meno della media europea.
Maggiore spesa pubblica, però, significa – di fatto – maggiore debito, perché, delle tre possibili fonti di finanziamento, tagli ad altre voci di spesa, aumento delle tasse e aumento dell’indebitamento, fino ad oggi, la terza opzione è sempre stata quella più gettonata. Basti ricordare che a luglio il debito pubblico ha raggiunto il livello record di 2252 miliardi di euro e, rispetto al Pil, sfiora il 133%, un livello inferiore solo a quello del debito ellenico.
Mantenere un debito pubblico elevato, tuttavia, è un problema. Per diversi motivi. Innanzitutto, perché si pagano spese per interessi elevate Nel 2015, ad esempio, il servizio del debito in Italia è stato pari a circa 68 miliardi di euro, circa l’8 per cento del totale: una cifra rilevante se si considera che – come ha dichiarato di recente il Commissario agli Affari Economici, Pierre Moscovici -, “ogni euro speso per il debito è un euro in meno per i servizi ai cittadini”. Rispetto al 2014, vi è stato comunque un risparmio di circa 6 miliardi, ma solo per effetto dell’azione della Banca centrale europea che contribuisce a ridurre i tassi di interesse nell’area.
A prescindere dagli interventi dell’Istituto di Francoforte, che peraltro non sono eterni – il Quantitative Easing dovrebbe proseguire fino a marzo dell’anno prossimo, poi si vedrà -, un debito pubblico elevato è un problema anche perché crea instabilità. La crisi recente, che in larga parte è causata anche dal perdurare di finanze allegre in diversi paesi, lo ha dimostrato. Ecco perché è fondamentale in un’unione monetaria come quella dell’euro, in cui vi sono 19 politiche fiscali diverse, avere delle regole che limitino i debiti pubblici dei singoli paesi.
Rispettare queste regole, significa contribuire alla stabilità e alla crescita dell’intera area, che poi sono gli obiettivi che tutti i leader invocano quando si radunano nei consessi europei. Inoltre, l’aver introdotto – su suggerimento del Presidente della Banca centrale europea – regole fiscali stringenti come quelle contenute nel Fiscal Compact ha aperto la strada a l’uso di strumenti come, appunto, il Quantitative Easing, inimmaginabili qualche anno fa. In assenza di vincoli quantitativi, sarebbe stato difficile convincere i tedeschi – ma non solo loro – ad accettare acquisti di titoli di debito sovrano da parte della BCE a causa dell’elevato rischio di comportamenti di azzardo morale.
Fare a meno delle regole significherebbe, pertanto, dover rinunciare a questi strumenti non convenzionali di politica monetaria il cui beneficio per le finanze pubbliche degli stati maggiormente indebitati è rilevante. Eppure sono in molti a chiederne una revisione. A cominciare dall’Italia. “Il Fiscal Compact non ha futuro” ha detto Matteo Renzi a margine del vertice di Bratislava della scorsa settimana. E ha aggiunto: “deve essere rivisto, ora che è in scadenza”. La scadenza a cui fa riferimento il premier è quella dell’estate del 2018, quando i governi saranno chiamati a decidere “se” e, eventualmente, “come” inserire il Fiscal Compact – che attualmente ha la natura di un accordo intergovernativo tra 25 paesi dell’Unione -, all’interno dei Trattati. Alcuni lo vorrebbero mantenere così come è. Altri, tra cui il governo di Roma, chiedono delle modifiche. “L’Italia è pronta a fare una riflessione” ha detto Matteo Renzi.
La riflessione, tuttavia, si prenuncia complessa. Anche perché, nel caso di una vittoria del “Si” al Referendum sulla riforma costituzionale, parte di questa “riflessione” spetterebbe ai membri del nuovo Senato. L’Europa è, infatti, uno degli ambiti in cui il Senato riformato mantiene “competenza legislativa”. Speriamo, allora, che i consiglieri regionali, comunali e i sindaci che ne faranno parte trovino il tempo per esaminare il Fiscal Compact.
Fino ad oggi, coloro che avrebbero dovuto farlo non sembrano essere stati numerosi: lo dimostrerebbe l’elevato numero di parlamentari che, dopo aver votato (nel 2012) l’inserimento del pareggio di bilancio in costituzione – modifica non necessaria, e, infatti, attuata solo dall’Italia, dalla Spagna e dalla Slovenia -, ne hanno successivamente chiesto l’abolizione. Per i “nuovi senatori”, valutare le eventuali revisioni al Fiscal Compact, tra l’altro, rappresenta un compito piuttosto gravoso dal momento che dovrà essere svolto a margine degli impegni quotidiani in veste di amministratori locali. E, per di più, a titolo gratuito.
Veronica de Romanis, Il Foglio 23 settembre 2016