Maledetto Ottobre rosso!

Maledetto Ottobre rosso!

Il comunismo ha in comune con il fascismo e il nazismo molto più di quanto le storiografie compiacenti abbiano voluto far credere. Avvalorando la tesi che il comunismo sarebbe un “bene” realizzato male, mentre il nazismo e il fascismo un male assoluto.

No, entrambi sono una reazione al mondo borghese e capitalistico. Comunismo e nazismo, due totalitarismi Non dite che sono diversi!

I dieci giorni che sconvolsero il mondo, come li ebbe a definire il giornalista americano John Reed, autore di un racconto “in presa diretta” degli avvenimenti che portarono i bolscevichi di Lenin a conquistare il potere il 7 novembre di un secolo fa (25 ottobre secondo il vecchio calendario gregoriano russo), furono veramente sconvolgenti.

Anche e soprattutto perché, da quel preciso momento, la storia del Novecento non fu più la stessa. Non solo in Russia, ma anche in Occidente.

“Breve”, come voleva Eric Hobsbawm, o “non breve” che sia, il Ventesimo secolo ha comunque una cifra ben definita: è il secolo delle idee al potere, dell’ideologia che si fa ideocrazia, dei politici che sono intellettuali, della crisi delle società e delle istituzioni liberali e dell’avvento delle masse sulla scena del potere, del potere totalitario, della tragedia delle guerre e degli stermini di massa ( delle tante “uova rotte”, per usare una metafora di Lenin ripresa da Isaiah Berlin, senza riuscire a fare una “frittata” che a ben vedere sarebbe stata, se realizzata, indigeribile).

Tutto questa storia inizia lì, in Russia, in quei giorni. Anche gli autoritarismi di destra, i nazionalismi, i fascismi, il nazionalsocialismo tedesco, generano da quel momento e da quell’episodio. E con l’operato dei comunisti sovietici, di Lenin prima e di Stalin poi, hanno molti più elementi in comune di quanto le storiografie compiacenti abbiano voluto far credere.

Avvalorando addirittura la tesi che il comunismo sarebbe un “bene” realizzato male, mentre il nazismo e il fascismo un male assoluto.

No, in verità, entrambi sono momenti di una comune reazione al mondo borghese e capitalistico. Né il fascismo può essere affatto considerato, giusta l’interpretazione della stessa storiografia, come una reazione di cui i capitalisti si son serviti per combattere il comunismo quando le armi della democrazia formale o borghese sono risultate spuntate.

L’alleanza con le forze padronali, o meglio conservatrici, dei fascismi ci fu ma fu contingente. E, in ogni caso, essi hanno invece sempre avuto un’impronta socialista che derivava loro dal modello originale (si legga, per farsene un’idea, il capitolo intitolato Le radici socialiste del nazismo ne La via della schiavitù di Friedrich von Hayek).

Già nel 1921, quando il movimento fascista di Mussolini muoveva i primi passi in Italia, Guido de Ruggiero, che avrebbe poi pubblicato una Storia del liberalismo europeo (1925) di vasto successo internazionale, scriveva: «In verità, io, tra il rosso e il nero, non so riconoscere se non una distinzione ottica: tutto il resto è indiscernibile».

Fu in ambito italiano, prima (in senso negativo) con Giovanni Amendola e poi (in senso positivo) con Giovanni Gentile che fu d’altronde usato per la prima volta, proprio in quegli anni, il termine “totalitarismo”, che dopo il secondo conflitto mondiale i cosiddetti “liberali della guerra fredda”, in primis Hannah Arendt, avrebbero reso popolare e introdotto nel comune linguaggio scientifico. [spacer height=”20px”]

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Nel 1927, dal canto suo, Benedetto Croce aveva affermato, in un’intervista all’Observer, che giudicava i «nazionalismi e autoritarismi, che si oppongono al socialismo e comunismo, come un’imitazione a rovescio».

Aggiungendo però, da quello studioso profondo che era stato di Marx, di cui aveva apprezzato la proposta di un canone di interpretazione storica, da usare accanto ad altri e non in modo unilaterale, e il realismo politico (lo aveva definito il “Machiavelli del proletariato”), che, fra i due totalitarismi, «la forma seria e coerente e fondamentale rimane sempre quella marxistica».

Ancora nel 1950, nel pieno della “guerra fredda”, il filosofo napoletano scriverà che «l’abito della dittatura e della rinunzia alla libertà hanno trovato una nuova forma in un partito che fu avversario del fascismo ma di cui il dittatore italiano, già comunista rivoluzionario, si era nutrito, in modo che la sua era stata un’imitazione del comunismo, dalla quale era agevole risalire all’originale.

Solo gli accidenti e le avventure portarono il Mussolini a diventare nemico del comunismo, al quale sarebbe volentieri tornato se avesse potuto e se ne avesse avuto il tempo».

Ovviamente, chi più di tutti, nell’ambito della storiografia, si è impegnato a sottolineare le affinità e la dipendenza genetica fra i due totalitarismi è stato, nel secondo dopoguerra, lo storico tedesco Ernst Nolte, che non a caso, dopo aver definito “guerra civile europea” quella scatenata nel 1917 dalla Rivoluzione d’ottobre e durata fino al 1945, ha parlato del secondo dopoguerra, fino alla definitiva caduta nel 1989 del comunismo, come di un periodo di “guerra civile mondiale” ( seppur “fredda”).

Resta così confermato che il “socialismo reale”, il comunismo realizzato, ha segnato l’intero secolo, con la sua presenza oppressiva e sempre più ampia (interessando molti altri Paesi al di fuori dell’Unione Sovietica).

Esso non solo ha soffocato la libertà individuale dei cittadini delle nazioni che l’hanno conosciuto, ma non ha nemmeno realizzato nessuna delle promesse di giustizia che aveva fatto.

Non è un caso: il comunismo, lungi dall’essere «un umanismo di giustizia sociale» (sic!), come ha recentemente scritto una sprovveduta firma del Corriere della sera (Donatella Di Cesare, 17 luglio), è un progetto, nella sua essenza, antivitale e antiumano. E che, pertanto, è corrotto nell’essenza, ab origine (l’autrice, per corroborare le sue tesi, osserva ovviamente che «la corruzione di un progetto non è il progetto stesso»).

Ora, a parte il fatto che Marx non ha inteso mai essere un “puro filosofo”, e anzi ha instaurato un rapporto di stretto legame dialettico fra teoria e prassi, continuato un po’ da tutti i suoi epigoni, a cominciare da Lenin, non si può certo dire che il comunismo che egli aveva in testa fosse altra cosa rispetto a quello effettivamente messo in pratica dai bolscevichi e in genere nel Novecento. Il quale tutto è da considerare fuorché una perversa deviazione dalla via maestra o da un presunto “comunismo vero” e, casomai, come dicono alcuni, ancora tutto da realizzare.

Certo, instaurando un rapporto necessitante fra pensiero e azione, è pur vero che Lenin (sulla scia di pensatori come Giovanni Gentile) sviluppa il marxismo in una determinata direzione, che potremmo definire attivistica e rivoluzionaria. [spacer height=”20px”]

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Quella direzione era però già presente in Marx come una delle possibili e legittime. Il fatto che il marxismo si sia dimostrato errato, e foriero di fallimenti tragici “in pratica”, chiama in causa la “teoria” e non significa affatto che essa errata non fosse e che in qualche modo possa essere “salvata”.

«Il male nel caso del marxismo – scrivevo in conclusione del mio Karl Marx pubblicato per Luiss nel 2007 – non è tanto nella mente e nelle azioni degli epigoni ma è già tutto nel pensiero e nell’azione del suo padre fondatore».

Il “peccato originale” del marxismo è, da una parte, di ordine logico, dall’altra, di natura antropo- ontologica, diciamo così. Dal primo punto di vista, l’esperienza sovietica ci ha mostrato nella “prassi” ciò che è vero in “teoria”: cioè che ogni “costruttivismo” politico o “economia di piano”, come ci hanno insegnato, fra gli altri e meglio degli altri, i pensatori della “scuola austriaca” dell’economia (da Carl Menger a Ludwig von Mises e Hayek), è tanto impossibile quanto irrazionale.

Oltre a presupporre di necessità l’introduzione di quella forma di coercizione che Marx aveva previsto, definendo “dittatura del proletariato”, e che nei paesi del comunismo realizzato è diventata prassi politica comune. Marx e i comunisti, d’altra parte, non hanno però fatto i conti fino in fondo nemmeno con la “natura” dell’essere umano, tanto che, io credo, soprattutto da questo punto di vista, l’Ottobre deve, a cento anni di distanza, fungere per tutti noi da ammonimento.

Essi hanno infatti elaborato un sistema di pensiero e di azione “che indica come obiettivo da realizzare una società senza più conflittualità. Un obiettivo non solo irrealistico, ma alla fine nemmeno auspicabile. Una realtà conciliata con sé stessa sarebbe una realtà senza più spirito vitale”, cioè in cui è venuta meno quella molla che fa andare costantemente avanti, ed essere e vivere, l’umanità”.

Spostando poi il discorso, altre domande sorgono naturali. L’Ottobre ha almeno favorito il progresso delle condizioni materiali e morali delle masse nel mondo intero? Ha contribuito alla diminuzione della povertà assoluta e delle ingiustizie relative a cui pure, fra tante tragedie, abbiamo assistito nel corso del secolo scorso?

In molti, in questi giorni, affermeranno questa tesi. Ed è indubbio che, tenendosi nella realtà tutto, anche la “rivoluzione comunista”, infiammando e spingendo all’azione, o semplicemente per reazione da parte di chi aveva il potere, ha finito per contribuire ai progressi del secolo.

Ha funzionato come mito e come elemento utopico, senza dubbio. Quei progressi si sono però tutti o quasi tutti realizzati nella cornice della “società aperta” e delle istituzioni liberal- democratiche.

Non poteva essere altrimenti. Ed è comunque un fatto, “duro e solido” come era sempre per Marx la realtà. Un fatto che non può continuare ad essere rilevante per tutti gli uomini pensanti e responsabili. [spacer height=”20px”]

Corrado Ocone, Il Dubbio 7 novembre 2017

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