È vero che la battaglia per il No al taglio dei parlamentari sembra di retroguardia e che il fronte del No sembra incarnare la rivolta delle élite. Che da anni tutto ciò che è politica o rappresentanza è stato sporcato dall’antipolitica. Le persone non capiranno le motivazioni del No al taglio dei parlamentari e vincerà ampiamente il Sì.
Non tutti capiranno che quelli dell’anticasta si sono, oggi, eretti loro stessi a casta: stanno ben saldi nei posti di potere e gestiscono nomine e prebende alle corporazioni come nessuna coalizione consociativa è mai arrivata a fare dal Dopoguerra.
E gli altri? Quelli che avevano promesso di “civilizzare i barbari”? Un giorno, la battaglia sulla prescrizione non è un motivo per puntare i piedi, forse neanche i decreti sicurezza, poi la gestione dell’Anpal dal Mississippi, poi l’indebolimento dell’Alternanza scuola lavoro, ma forse neanche le assunzioni senza concorso e la totale incertezza sulla riapertura delle scuole, ma in fondo anche le nomine di amici e compagni di classe nei cda. E perché no, con tutti questi secchioni che studiano e lavorano su scienza e cultura, cosa ha di meno uno che ha avuto la fortuna di avere il compagno di banco giusto?
Insomma ha ragione il ministro degli Esteri, se da uno yacht in Sardegna attacca le élite e la gente lo prende sul serio. Come fa bene il presidente del Consiglio (che sta a Palazzo Chigi da due anni) a lamentare i ritardi della ricostruzione presso i terremotati, come un qualsiasi cittadino, se chi è stato colpito dal sisma lo accetta. Il tema è proprio questo. Cosa avranno fatto o soprattutto non avranno fatto le élite per essere meno credibili?
E allora la battaglia referendaria per il No non avrà nulla di eroico e di definitivo, ma è utile.
È utile perché i primi conti con se stesso deve farli il gruppo dirigente illuminato e diffuso del Paese. Troppo pigro e furbo dentro una bolla in cui confonde il popolo con la chat di riferimento o i commensali delle proprie cene.
I cittadini italiani non hanno imparato da soli che essere onesti è inutile, che studiare è una perdita di tempo, che pagare le tasse è da stupidi, che lavorare onestamente è una fatica non necessaria, che merito e impegno sono da valorizzare ma dalle prossime generazioni, familiari esclusi.
Tutto questo non va bene. Se una parte dei concittadini si è convinta di queste idee, è perché qualcuno l’ha persuasa e nessuno si è sforzato di mostrarne le incoerenze e le assurdità.
Per questo è necessario un progetto rigeneratore del gruppo dirigente diffuso del Paese. Non c’è scorciatoia: non ce la si può cavare con passi furbetti, come un sostegno “di maniera” al referendum per lisciare il pelo alla retorica dell’anticasta. Sono arrivati a dire “basta questa ostilità al sentimento popolare, perché lasciare il monopolio del taglio ai populisti?”. Come dire, perché lasciare il monopolio del razzismo all’estrema destra. Siamo dove siamo proprio perché le nostre élite troppo spesso hanno mancato di coraggio, oltre che di lucidità.
Stiamo rischiando grosso. Troppa ipocrisia e furbizia ma soprattutto irresponsabilità. In passato le élite capivano di avere avuto un privilegio che portava a servire il popolo e non ad accontentarne gli istinti peggiori ma a restituire spirito di servizio, oggi si autocelebrano nei think-tank.
La democrazia è più a rischio con un gruppo dirigente diffuso mediocre che per il Sì al referendum. Mettiamo insieme chi ha il coraggio di battersi per un progetto che modernizzi il Paese che non continui a rinviare le sfide. Che si occupi seriamente di povertà e marginalità sociali ed educative che sono crescenti, altro che abolite. Astenersi praticoni e furbi, per loro una “quota 100” per farli ritirare dalla gestione sarebbe “debito buono”.
Marco Bentivogli
La Repubblica, 28/08/2020
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