Digitalizzazione nel lavoro, decreto dignità, Ilva, Marchionne e altro ancora: Marco Bentivogli, capo dei metalmeccanici Cisl, ne ha parlato in questa intervista a Industriaitaliana.it
«L’industria non era nel dibattito pubblico in campagna elettorale e non c’è adesso. Nel 2017 la metalmeccanica ha pesato per il 52% del nostro export: sostanzialmente è ciò che ci tiene a galla. Ma la politica sembra essere inconsapevole. E in ogni caso naviga a vista, senza alcuna visione strategica». Industria Italiana ha incontrato Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl e, soprattutto, protagonista emergente del mondo industriale, politico, mediatico. Uno dei pochi leader sindacali, forse l’unico, ad essersi buttato corpo e anima sul 4.0, le nuove tecnologie, i Big Data, i temi della formazione e delle conoscenze. Un personaggio di cui sentiremo parlare a lungo, e che potrebbe presto arrivare a ruoli ancora più importanti dell’attuale.
Per Bentivogli nell’era della digitalizzazione il lavoro si crea con le competenze, e il sindacato, per tutelare gli interessi degli iscritti, deve operare per fare in modo che queste competenze crescano il più possibile. Bentivogli punta il dito contro una
politica pressoché assente sui temi che contano, ma anche contro un capitalismo chiuso in sé e incapace di guardare oltre il proprio naso. E un sindacato legato a logiche del passato che non hanno più senso di esistere. Un sindacalista che potremmo definire 4.0, molto lontano da quello che l’immaginario comune associa al ruolo che riveste. Un sindacalista che alla Smart Factory 4.0 e robotizzata vorrebbe far corrispondere la Smart Union. Anche perché dal cambiamento in atto non si può fuggire e quella che lui definisce tecnofobia non può che fare danni, dando vita a un mondo con il «90% dell’umanità in panchina, di fatto senza lavoro».
La soluzione, perché dal pianeta lavoro nessuno sia escluso, anche coloro che oggi svolgono le mansioni più alienati e automatiche – cioè coloro il cui posto è già dei robot – è investire in formazione continua, unendola a una politica con un orizzonte temporale di almeno 20 o 30 anni. Perché «industria 4.0 è molto più di una rivoluzione industriale- ci dice Bentivogli- : combinata con blockchain si configura come il secondo balzo in avanti dell’umanità. I dati demografici fino al 1800 sono piatti: il primo balzo in avanti è avvenuto con la macchina a vapore. Lo stimolo che allora la macchina a vapore diede alla potenza muscolare umana, oggi la quarta rivoluzione lo darà alle capacità cognitive. E questo rispetto alla produzione darà vita a un mondo che neppure siamo in grado di immaginare del tutto, che implica discontinuità rispetto al passato».
Dunque questa rivoluzione, dal suo punto di vista, che tipo di misure richiede per essere realmente cavalcata con vantaggi anche per chi lavora? E a che punto siamo in Italia?
La prima operazione da fare è instradare la comprensione delle cose a cui andiamo incontro: spiegando che si tratta di una trasformazione più impegnativa di una semplice robotizzazione. Anche la Fiat Ritmo del 1978 era completamente automatizzata e veniva prodotta tramite robot nella fabbrica di Cassino: la fabbrica 4.0 è qualcosa di completamente diverso, è interconnessa con un livello di interdipendenza con un ecosistema intelligente attorno, con un dialogo tra macchine e tra macchine e uomini di alto livello. In Italia, di fatto, non esiste nulla del genere, ancora: le prime piccole esperienze italiane sono nicchie, cantieri interni che non sono una fabbrica 4.0, che è completamente integrata al suo interno sulle nove tecnologie abilitanti individuate dai tedeschi: ovvero cloud manufacturing, IoT, realtà aumentata, simulazione orizzontale e verticale, cybersecurity, manifattura additiva, robotica e automazione avanzata, integrazione orizzontale e verticale. Le fabbriche di Siemens e Bosch sono le prime che hanno iniziato a fare davvero il 4.0. Questa mutazione, che in Italia è solo embrionale, implica la necessità di ripensare la produzione e le persone impegnate nella produzione, ma anche a rigenerare il territorio intorno a una fabbrica smart, che funziona se ci sono maestranze con la professionalità adeguata ma soprattutto se c’è questo sistema intelligente attorno.
Insomma, abbiamo l’occasione di riportare la manifattura al centro, creando ricchezza e lavoro..
Proprio così! Chi parla di dematerializzazione dell’economia non ha capito nulla: abbiamo l’ultima occasione di riportare la manifattura al centro e lo si fa solo con la creazione di un ecosistema intelligente. Per riuscirci abbiamo bisogno di programmazione politica oltre che di formazione. Questo presuppone la capacità di tenere conto dei megatrend tecno-industriali e umani attraverso politiche che si sviluppino sul lungo periodo e non si basino sul ricatto dell’immediato. Le politiche triennali sono in questo senso inutili: le nostre che sono semestrali sono più che inutili. Bisogna guardare su un orizzonte di almeno 20 o 30 anni. Considerare ad esempio che l’Africa avrà 4 miliardi di abitanti nel 2100 rispetto al miliardo attuale, il che fa ripensare totalmente il concetto di immigrazione. Considerare che gli ultraottantenni raddoppieranno e che avremo molti più over 65 che giovani nel giro di qualche decennio dovrebbe far riflettere sulla demografia: progettazione è la parola chiave.
Certamente Industry 4.0 e tutta l’ondata di cambiamenti tecnologici e manifatturieri richiedono pesanti investimenti in formazione con quest’ottica di lunghissimo periodo. E certamente ci potrà essere più ricchezza per tutti, più spazio per lavori qualificati e a valore aggiunto e, magari, anche una crescita complessiva delle opportunità di lavoro. Ma ci sarà un gruppo di “perdenti assoluti” piuttosto consistente. Perché molti nuovi lavori non potranno essere svolti dalle stesse persone che escono dal circuito produttivo per obsolescenza. Insomma il costo sociale sarà elevato. Penso all’operaio portuale, quello che un tempo si chiamava “camallo” che viene di fatto sostituito dai sensori sui container che comunicano con i mezzi in grado di trasportare in automatico i carichi.
È difficile che tutti costoro, soprattutto se di età matura, diventino tecnici qualificati..?
Non sono d’accordo. Se dico solo che serve formazione e la oriento su quelli che escono dall’università perdo gran parte dell’umanità e la faccio sentire esclusa, uno scarto: l’errore che si fa è questo, ed è per questo approccio errato che si teme la perdita di posti di lavoro. Quando la formazione di alto livello è estesa e pensata per chi lavora, si è in grado di trasformare anche i camalli dei porti in lavoratori fruibili in questo processo. Un esempio lo ho visto sul campo io stesso: e riguarda la collaborazione tra Fastweb, Tim, Huawei e Isotta Fraschini (la società del gruppo Fincantieri che proprio a Bari costruisce motori diesel per applicazioni marine e industriali, ndr). Fastweb ha installato la prima antenna 5G italiana nel porto di Bari che è stata utilizzata per cambiare il modo di lavorare della seconda.
La manutenzione di grandi motori marini è un’attività molto pericolosa: grazie alla tecnologia ma anche a processi di formazione, il personale dell’azienda è stato riqualificato. In particolare i manutentori, coloro che usavano mani e utensili su motori roventi, in luoghi complicati, stretti e bui, nel corpo della nave. Oggi grazie alla realtà aumentata, con visori VR e un ologramma sopra il motore, che guida gli operai da remoto in maniera dinamica nel motore si possono eseguire le procedure senza rischi e in maniera efficace. Ovviamente è stato necessario fare formazione per insegnare a utilizzare la realtà aumentata: ma a fronte dello sforzo grazie all’impiego di queste tecnologie è diventato più semplice riparare il motore marino rispetto a prima.
Il punto, dunque è offrire competenze digitali basiche a tutti i lavoratori attraverso il diritto soggettivo alla formazione, che è stato introdotto nel contratto dei metalmeccanici del 26 novembre 2016. Si tratta di una regola che impone alle aziende di estendere una quota minima di 8 ore di formazione annue a tutti i lavoratori e di non limitarla, come avveniva in precedenza, solo ad alcune categorie che in genere finivano per essere quelle con una professionalità già elevata.
Dunque, lei è convinto che non si avranno esclusioni nel mondo del lavoro…
La mia idea è che quando arriva una tecnologia così disruptive è normale che venga accolta inevitabilmente come qualcosa di distruttivo. Perché in effetti cancella determinati lavori, ma ne crea di nuovi: l’intervallo tra sparizione di vecchi lavori e sostituzione con nuove mansioni è tanto più breve quanto il sistema sociale ed economico si sia preparato in anticipo al cambiamento. I sistemi che sono meglio posizionati a cogliere l’occasione di questa evoluzione e che corrono meno rischi sono la Germania, il Nord Europa e la Cina che, con il programma Made in China 20-25, intende diventare leader della manifattura mondiale. Come? Cancellando i business a basso o nullo contenuto di innovazione e sostituendoli con attività ad alta intensità di innovazione e di umanità.
Non è con la tecnofobia che si risolve il problema. Con la tecnofobia di matrice californiana il massimo che si riesce a fare è immaginare un mondo in cui solo il 10% della popolazione lavora e il resto vive di reddito di cittadinanza. Uno scenario che giudico eticamente mostruoso. La sfida è utilizzare la tecnologia come occasione di umanizzazione del lavoro. Asfaltare la strada ad agosto non è un lavoro umanizzabile, come reiterare all’infinito operazioni identiche in contesti pericolosi: queste mansioni vanno “regalate” alle macchine. E vanno nel contempo sviluppate professioni nuove con un elevato contenuto di umanità.
Ha accennato al fatto che in Italia lo sviluppo di Industry 4.0 è solo in embrione. Siamo molto indietro eppure siamo tra i più bravi quando si tratta di costruire tecnologie: come si spiega?
Molto semplicemente. I nostri imprenditori sono eccellenti quando si tratta di creare tecnologie: ci sono esempi di questo in molte aziende capaci di competere da leader nel mondo, due nomi su tutti sono StM e Leonardo, ma accanto a loro ci sono migliaia di medio piccole che stanno letteralmente “volando”. Ma l’incapacità italiana di fare sistema e integrarle è un grosso limite che va superato. Ed è colpa invece degli altri imprenditori pavidi e troppo furbi e i loro politici di riferimento, in genere se l’occupazione in Italia continua a calare.
Colpe degli imprenditori. Parliamone. Il discorso mi sta particolarmente a cuore. Nel dibattito pubblico sembra infatti che gli impreditori, o i sedicenti tali, siano sempre virtuosi. Mentre le colpe sarebbero tutte della politica… Non è proprio così, forse…
Le delocalizzazioni partite negli anni Novanta con la lira, non dipendono da euro e globalizzazione o robotizzazione estrema, ma dipendono da scarsi investimenti nelle tecnologie spesso dovute a cambi generazionali di bassissimo livello nel capitalismo italiano. Basti pensare alla parabola di Aristide, Vittorio, Andrea Merloni, che da sola spiega perché Merloni sia finita alla Whirlpool. Questo e la mancanza di investimento hanno fatto male all’occupazione. Diciamo la verità: perché Embraco va in Slovacchia?
Già, perché Embraco va in Slovacchia?
Forse perché trova una burocrazia gestibile, ottime infrastrutture, tecnologie più avanzate della nostra. E dirò di più: investire in robotica e automazione aiuta a difendere l’occupazione: e lo dimostrano tutti gli accordi di reshoring che sono stati possibili grazie alla tecnologia. Come abbiamo fatto a far ripartire gli stabilimenti Fca in Italia? Con investimenti che sono finiti in organizzazione del lavoro con l’istituzione della World class manufacturing, formazione delle persone, tecnologie abilitanti – le butterfly che fanno le carrozzerie sono le più avanzate che ci sono in Europa e forse anche negli Usa: siamo dieci anni avanti sulla robotica. Organizzazione del lavoro, formazione, tecnologie sono i fattori che sgretolano i due falsi miti che vigono nei Paesi a industrializzazione matura: ovvero che per conservare le fabbriche in loco sia necessario abbassare i salari e peggiorare le condizioni del lavoro. Non è così: Fca ne è la prova, visto che i salari e le condizioni di lavoro sono migliorate quando l’azienda è tornata a produrre in Italia.
A proposito di salari, un altro problema di questo Paese è che sono particolarmente bassi. Cosa che incoraggia i giovani brillanti ad andare via, limita la ripartenza dell’economia domestica e crea lesione al diritto individuale al benessere di chi lavora…
In Italia c’è un grande problema di produttività: la redistribuzione salariale non avviene anche laddove questa cresce, ma mediamente si colloca a un livello molto basso. Ci sono le aziende sopra i 200 dipendenti che hanno una produttività superiore a quella del Baden-Württemberg tedesco, e le piccole imprese che hanno ratio bassissimi, con lodevoli eccezioni. Se usiamo la definizione di Pmi europea in Italia abbiamo il 99,3% di Pmi, con il 90% dei dipendenti impiegati in imprese con meno di 20 dipendenti. La questione salariale va legata a produttività e a nanismo e alla necessità di rigenerare il sistema industriale. La produttività non si ottiene abbassando i salari: altro falso mito che addormenta le coscienze.
E come si ricava questa produttività che non c’è e che incide così pesantemente sui livelli salariali?
Abbiamo una quota di imprese zombie sopra la media europea. Le aziende che hanno vissuto solo di mercato interno, un mercato che di fatto non è mai veramente ripartito: in qualche caso sono riuscite a galleggiare, in altri casi sono andate ad allargare le fila delle imprese zombie. Diametralmente opposte ci sono le gazzelle, imprese medie vocate all’export che hanno investito e hanno tecnologie che non esistono neppure in Germania e personale molto professionalizzato, salari e condizioni di lavoro migliori della media. Per uscire dal tunnel bisogna agganciare le imprese alla locomotiva delle gazzelle. Mentre in Italia vige ancora la vulgata del piccolo e lento che è dotato di grande fascino. Sì, ma è il fascino del declino.
Che cosa pensa del ruolo di Sergio Marchionne e della trasformazione di Fca?
Non posso che ribadire qui quanto scritto da me in un intervento di fine luglio sul Sole 24 Ore. La vicenda Fiat (oggi Fca) rappresenta pertanto una storia di successo, la possibilità di assicurare un futuro sostenibile alla manifattura nelle economie mature. La fusione con Fca, il Wcm, ( Il sistema World Class Manufacturing (WCM): una metodologia di produzione strutturata, rigorosa ed integrata che coinvolge l’organizzazione nel suo complesso, dalla sicurezza all’ambiente, dalla manutenzione alla logistica e alla qualità. Questa la definizione ripresa dal sito FCA ), gli accordi sindacali, sono una dimostrazione della capacità di gestire la diversità multidimensionale in un’economia globale. Su oltre 180 stabilimenti che utilizzano il Wcm, Pomigliano nel settembre 2015 si è classificato al primo posto. Altri gruppi industriali italiani, in settori che hanno subito minor crollo di mercato (si veda solo a titolo esemplificativo l’aerospazio), hanno avuto un crollo di addetti che l’automotive localizzata in Italia non ha registrato. È la dimostrazione che la tenuta della manifattura passa per scelte strategiche internazionali e organiche.
La vicenda Fca dimostra che ciò può avvenire, smontando i falsi miti che individuano nel costo dei fattori – riduzione del salario e deterioramento delle condizioni di lavoro in primis – le leve su cui agire per difendere nel lungo periodo la localizzazione produttiva. L’introduzione del Wcm corona quello che il sindacato Fim sostiene da anni: una migliore organizzazione del lavoro contiene i costi, determina un mix più favorevole, con l’impiego estremo di tecnologie che garantiscono una migliore difesa occupazionale. Capire le trasformazioni in anticipo, nel nostro Paese viene confuso con “l’accettare un ricatto”. Ciò non toglie che Marchionne, spesso, ha affermato male le sue prerogative. Non ha mai creduto nella partecipazione del Sindacato e questo è stato un grande limite. In ogni caso, ce ne fossero di più di quelli come lui e meno dei capitani coraggiosi con i soldi altrui del “salotto buono”.
La distribuzione della ricchezza attraverso i salari, può essere affrontata e come dal punto di vista della contrattazione?
Il modello contrattuale dovrebbe cambiare, per poter incidere anche sulla questione salariale rispetto a cui l’Italia è fanalino di coda non solo in Europa. Abbiamo un modello contrattuale fortemente centralizzato, dovuto anche al fatto che la taglia dimensionale delle aziende è molto piccola, per cui loro stesse si sentono maggiormente rappresentate e protette da un contratto nazionale. Finalmente nell’ultimo accordo interconfederale abbiamo convinto le altre sigle sindacali sul decentramento. Speriamo siano convinti davvero.
Nel contratto nazionale, quando vengono stabiliti i livelli salariali, si distribuisce un’inflazione bassa insieme a una produttività media che per tutti i settori, forse a esclusione del pharma, è negativa. Il che scontenta tutti e crea un sistema che di fatto guarda agli zombie anziché alle gazzelle. Esattamente il contrario di quello che andrebbe fatto. La ricchezza andrebbe distribuita dove si crea e cioè nella singola azienda, per cui la contrattazione andrebbe decentrata in meccanismi virtuosi che facciano sì che laddove la produttività è più elevata e si crea ricchezza questa si riverberi sui salari. Bisogna evitare che la forma sindacale novecentesca permanga in una situazione post-novecentesca con strumenti ormai inservibili. Bisogna costruire forme e strumenti nuovi.
Quali sono questi strumenti secondo Fim-Cisl?
Innanzitutto, il sindacato deve stare nel dibattito pubblico per condizionarlo. In secondo luogo, uno dei nostri cavalli di battaglia più importanti è lavorare sulla formazione e rilanciare la contrattazione territoriale. In un sistema come quello italiano dove le imprese piccole sono la stragrande maggioranza bisogna fare massa critica dal punto di vista contrattuale, collegando la contrattazione territoriale di filiera, di rete e di sito, alla necessità di incrementare la produttività. Le aziende con meno di 10 dipendenti da sole non possono accedere a tecnologie e formazione di cui hanno bisogno. Bisogna costruire una massa critica per cui i percorsi di crescita di produttività siano affrontati in una battaglia comune in cui noi ci poniamo come un soggetto che integra. Perché la crescita di queste imprese vuol dire crescita dell’occupazione e migliore qualità del lavoro oltre che redistribuzione dei salari. Paradossalmente questo rimane un tabù di Confindustria che considera la contrattazione territoriale, un terzo livello aggiuntivo, ignorando che nelle micro imprese arriva solo il contratto nazionale. Che invece deve restare cornice di garanzia, mentre il contratto territoriale deve porsi al servizio delle sfide del lavoratore.
Che cosa significa allora Smart Union, secondo Lei? Insomma, che cosa deve diventare il sindacato?
La Smart Union deve essere un soggetto che non si difende ma che incalza il cambiamento e lo promuove, senza zavorrarlo. Ovviamente per esserlo deve essere un sindacato che studia e approfondisce. Noi abbiamo fatto un’iniziativa allo scopo, FimXSkill 4.0: pensiamo di dover passare dalla job protection alla job promotion, alla capacità di costruire e individuare gli skill che i lavoratori oggi devono possedere(Skill-development). Vogliamo essere il sindacato che tiene insieme emergenza e prospettiva: se non ci occupiamo di essere nelle aziende innovative dove ci sono giovani con skill avanzati rischiamo di diventare associazioni di superstiti. Il sindacato deve rappresentare chi lavora, anche per i settori che lo considerano meno importante. Cambia la battaglia ma non il ruolo delle rappresentanza collettiva, che non è finito con le nuove tecnologie, ma si sposta su una regola di ingaggio tra impresa e lavoro organizzato di livello più elevato. La parola d’ordine non è più antagonismo ma partecipazione, come avviene in Nord Europa. Io sostengo il sistema duale in cui esiste il Comitato di sorveglianza nelle aziende, in cui il sindacato può discutere di strategie.
A inizio anno, in piena campagna elettorale, lei ha co-firmato insieme all’ex titolare del Mise Carlo Calenda un piano nazionale per le competenze ( vedi qui ). Smart factory, innovazione, industry 4.0 erano temi pressoché assenti nel dibattito pubblico: e ora?
Quel Manifesto scritto con Calenda all’inizio della campagna elettorale serviva ad avvisare che l’industria e i temi collegati di innovazione e formazione, dovessero tornare al centro del dibattito. Ho condiviso quei contenuti con Carlo Calenda e da coppia anomala, da due non candidati alle elezioni avevamo lanciato il nostro appello. Poi nel programma del governo giallo-verde abbiamo visto una paginetta dedicata al lavoro: da una situazione deludente a una peggiore, ma farò sempre la mia parte senza pregiudizi.
Cosa pensa invece del Decreto Dignità, di fatto la prima misura del governo giallo-verde dedicata a temi economici?
Nel Decreto Dignità si vede quanto siano stati usati estensori di matrice Cgil che guardano al passato e non al futuro. Come ho già detto, far scrivere le leggi al pezzo più ideologico del sindacato è come affidare i corsi pre-matrimoniali a Fabrizio Corona. E per questo le nuove norme rischiano di aumentare il precariato: perché si lavora solo sulle durate e non sulle cause e sulle conseguenze. L’elemento più forte per rendere i contratti a termine contratti forti è riempirli di formazione. Se una impresa per 12-24-36 mesi sarà obbligata a dare anche formazione avrà investito su di loro e se ne libererà meno volentieri.
Non tutto è da buttare, per esempioè buono l’incentivo all’esodo per i lavoratori licenziati senza motivazione, ma ci sono una serie di divieti che non approvo come metodo. Per esempio, il divieto alla delocalizzazione: abbiamo ora l’occasione di verificare sul campo se la cosa funzioni oppure no e a benedirla nel primo caso. Il banco di prova sarà Bekaert, l’ex azienda Pirelli che ha annunciato la chiusura dopo aver ricevuto finanziamenti pubblici e ha confermato che delocalizzerà in Romania. Bisogna essere laici: vedremo se quanto prevede il Decreto Dignità farà da deterrente. Io, in ogni caso, avrei usato una strategia diversa.
Cioè, quale è la sua ricetta per evitare che le imprese fuggano dal Paese?
Per evitare la delocalizzazione, bisogna migliorare l’ambiente grazie a riforme che incentivino le imprese a restare in Italia. Dunque, garantire stabilità normativa, abbassare i costi dell’energia, istituire consorzi per l’accesso alle materie prime, far sì che la giustizia abbia tempi certi e più brevi, e che la PA sia veloce, reattiva ed efficiente. Tra i Paesi Ocse siamo in fondo alla classifica degli habitat adatti alla creazione di impresa. Al centro devono esserci riforme, meno lacci e un netto no agli incentivi a pioggia. Sono sicuro che se ci mettessimo a un un tavolo con Di Maio individueremmo una quota di problemi comuni che danneggiano sia imprenditori che lavoratori, che ritengo sia il primo compito di un ministro dello Sviluppo e di un governo che vuole essere avvocato di lavoratori e imprese.
Insomma ci vuole una politica industriale in questo Paese…
Non amo la locuzione politica industriale, perché evocativa di spesa pubblica. Che in passato è spesso servita a coprire inefficienze e a distrarre risorse, mentre dovrebbe funzionare da volano della spesa privata. Mi spiego meglio: il centro del sistema tedesco sono i Fraunhofer Institute, che hanno in dotazione 3-4 miliardi di piani di formazione, di cui il 30% pubblici e il 70% privati. La spesa pubblica in quel caso è una garanzia di serietà e rigore. Il piano Calenda ha avuto il grande merito di attivare gli sgravi alla tecnologia, specificando in maniera precisa un elenco delle macchine e dei servizi sgravabili. Immaginare che più si spende e più si ha politica industriale è l’errore più grosso: dobbiamo sapere dove vanno le risorse perché ne abbiamo poche e dobbiamo assicurarci che siano un moltiplicatore sul lato dell’offerta e non della domanda, ribaltando schemi del passato. Dobbiamo costruire un’offerta industriale di più alta qualità per un upgrade del sistema.
Per farlo dobbiamo riportare all’impresa i capitali privati fuggiti e finiti ad alimentare la rendita, in un percorso che Calenda aveva iniziato e che io mi auguro che il governo del cambiamento prosegua e amplifichi. Industria 4.0 ha fatto sì che sulle vendite di macchine e sulle esportazioni vedessimo numeri mai visti in 25 anni: bisogna però sottolineare che il 52% dell’export italiano è fatto dal comparto metalmeccanico nel 2017. Dunque il surplus di bilancia commerciale dipende da questo settore, che è ciò che garantisce un certo livello di benessere del nostro paese. La politica in genere è molto poco consapevole di questa “Italia a prescindere” che combatte pur senza essere rappresentata e ha grandi risultati da tutti i punti di vista, industriale, tecnologico, economico, sociale.
E intanto il governo ha una questione urgente da affrontare: Ilva, una telenovela infinita che non accenna ad arrivare a conclusione. Cosa pensa di questa vicenda?
Ilva è il classico esempio in cui la conflittualità tra temi che vanno conciliati fanno fare passi indietro. La partita si gioca intorno allo scontro tra industrialismo ottocentesco secondo cui per produrre acciaio un po’ di morti bisogna farli e l’ambientalismo isterico che sostiene che la produzione sia un evento criminoso. Per fortuna nel mondo acciaio e ambiente vanno d’accordo e si mettono insieme ecosostenibilità e produzione. Il paradosso è che Ilva da pubblica inquinava anche di più, sia l’ambiente, che la società con le tangenti, con Italsider e dopo, e perdeva dal punto di vista dei volumi produttivi. Dunque, è passata da una pessima gestione pubblica a una pessima privata. Adesso abbiamo il dovere di trattenere Arcelor Mittal che è il maggior produttore al mondo di acciaio e che è interessato a rilanciare quella fabbrica.
Che l’impianto debba essere ecosostenibile credo che si realizzi applicando le prescrizioni Aia al più presto. Il maggior rischio che vedo è che mentre si scherza con le affermazioni per analfabeti funzionali di Emiliano, si rischia che un’azienda che ha ridotto a un terzo la propria produzione fallisca miseramente pur avendo un’ulteriore ottima occasione. Il tutto con un Ministro che è in troppo in competizione col predecessore. Guardi avanti, si misuri con le cose da fare, nessuno deciderà al suo posto. Decidere di non decidere per non scontentare nessuno, deluderà tutti.