Il fatto che Massimo D’Alema abbia decretato, dalla Cina, l’avvenuta “perdita di credibilità e di efficacia del modello di democrazia occidentale” ha scatenato critiche feroci. Critiche esagerate, se riferite alla tesi.
Sono, infatti, almeno trent’anni che, con frequenza crescente, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Europa si pubblicano libri sulla “crisi della democrazia” piuttosto che sulla “fine del potere”. Il problema è conclamato; l’astensionismo crescente, la radicalizzazione dell’elettorato, la marginalizzazione dei parlamenti e le singolari traversie politiche dei Paesi dove la democrazia liberale vide la luce (l’America e l’Inghilterra) sono indicatori inequivocabili. E indicano che la tesi ha un fondamento. Pur rimanendo evidentemente meta ambita e modello culturale egemone nel mondo, i sistemi politici ed istituzionali liberal-democratici occidentali se la passano oggettivamente male. Risultano poco efficaci, e soprattutto scarsamente legittimati da un’opinione pubblica sempre più indifferente ai principi su cui la democrazia liberale si fonda: il pluralismo, la separazione dei poteri, la presunzione di innocenza, le libertà economiche e politiche…
Massimo D’Alema ha dunque affermato quel che dice, scrive e pensa buona parte dell’establishment politico e intellettuale di un Occidente in effetti disorientato e più che mai incline all’auto commiserazione. Il punto, semmai, è il contesto in cui Massimo D’Alema ha parlato. E quel che ha poi aggiunto.
Già il fatto che, su iniziativa del “Dipartimento per l’informazione del Comitato centrale del Partito comunista cinese” e dell’“Ufficio informazioni del Consiglio di Stato di Pechino”, in Cina si tenga un “Forum internazionale sulla democrazia e valori umani condivisi” suscita spontanee perplessità. Curioso che un regime autoritario che nega sistematicamente i diritti della persona si interroghi solennemente sul destino della democrazia e dei “valori umani”… Evidentemente, Massimo D’Alema, il Massimo D’Alema ex Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana più del Massimo D’Alema lobbista internazionale, non ha percepito il rischio di essere strumentalizzato. Oppure lo ha ben percepito e si è consapevolmente prestato al gioco. Ipotesi, quest’ultima, avvalorata dal suo argomentare successivo al quasi epitaffio della democrazia occidentale. Democrazia, peraltro, “non esportabile ad altre parti del mondo”, ha precisato D’Alema.
A detta dell’ex segretario del Partito “democratico” della sinistra, ex presidente dei “Democratici” di sinistra ed ex premier di un governo occidentale che dichiarò guerra alla Serbia assieme alla Nato senza l’autorizzazione dell’Onu, a detta di Massimo D’Alema, insomma, “è possibile avere forme di sovranità popolare senza pluralismo politico” e “non esiste un modello superiore ad un altro”. Dall’amara ma fondata analisi delle difficoltà dei sistemi democratici occidentali siamo così passati al relativismo costituzionale. I principi liberali e democratici, secondo D’Alema, non sono principi assoluti, non rispecchiano diritti naturali e di conseguenza universali, non rappresentano un invalicabile discrimine politico tra l’amico e il nemico. Sono solo un vezzo; il vezzo di noi occidentali. E valgono tanto quanto quelli che reggono un sistema collettivista a partito unico.
Il problema non è che Massimo D’Alema la pensi così. Il problema che così sembrano pensarla anche Matteo Salvini, Giuseppe Conte, i collettivi universitari, la destra del generale Vannacci, Donald Trump, buona parte degli intellettuali indifferenti al destino dell’Ucraina e ostili allo Stato di Israele e, di conseguenza, una quota crescente di opinione pubblica italiana e occidentale.
Morale della favola dalemiana: cattivi e sfiduciati maestri crescono popoli cattivi e sfiduciati.