Gli elettori tedeschi non hanno trovato di che entusiasmarsi o di che spaventarsi, hanno tagliato fuori gli estremisti, si sono comportati in modo ragionevole. Siccome viviamo nella stessa Unione e la cosa ci riguarda, come le faccende di casa nostra riguardano anche loro, possiamo ringraziarli. Ben votato, perché il risultato è consapevole che una stagione è finita e quella che si apre è ancora tutta da delineare.
La novità di quel voto non è che si dovrà fare un governo di coalizione, perché i loro governi tali sono da una sessantina d’anni, il primo con cristianodemocratici e socialdemocratici risale al 1966. La novità è che i due partiti maggiori, assieme, non raggiungono la metà dei votanti. I socialdemocratici crescono e arrivano primi, i cristianodemocratici perdono, ma hanno governato assieme e ora, assieme, non raggiungono la maggioranza. In questo risultato pesano ragioni interne, ma considerato che la Germania Federale era l’ultimo grande Paese europeo in cui i partiti politici non erano stati travolti e mantenevano saldo il governo, vi si può leggere anche una condizione continentale, forse relativa all’intero Occidente: l’impronta genetica del ‘900 s’indebolisce e nuove sfide chiedono nuove idee. Il che riguarda anche verdi e liberaldemocratici, per restare in Germania, come le forze più recenti nel continente (si pensi alla Francia, con presidente e maggioranza parlamentare intestati a una forza politica che prima delle scorse elezioni non esisteva). Nessuno sfuggirà al bisogno di offrire una più credibile visione del futuro, altrimenti durerà lo spazio di un mattino.
Qui in Italia si guarda alla Germania con il timore che “tornino i Falchi”. I Falken. Sciocca preoccupazione, tanto più che le grandi svolte che abbiamo vissuto e viviamo, dal 2012 in poi, sono state tutte fatte con i Falken ben presenti. Anche loro, però, a dispetto del rapace cui devono il nome, hanno avuto vista corta. Hanno ragione quando sostengono che non si può stare troppo a lungo con i tassi d’interesse a zero o che non si può incentivare l’indebitamento per alimentare la spesa corrente. Certo che hanno ragione. Ma la potenza del mercato europeo è anche la potenza della Germania, sicché sarebbe masochista strozzarla. Hanno ragione quando osservano che l’indebitamento comune si fa a tasso bassissimo perché l’ordine e il rigore di Germania l’hanno portata a indebitarsi con tassi negativi, ma è ragione che serve a nulla se porta al divaricarsi degli spread e all’insostenibilità per i più indebitati (ovvero noi, che anziché piagnucolare ce ne dovremmo ricordare).
Qui si dice, con una certa stolta soddisfazione, che il voto tedesco indebolisce la Germania e, quindi, favorisce una nostra (e francese) maggiore influenza. L’Unione europea ha bisogno che ciascun componente sia forte e l’ipotesi di veder scivolare la più grande potenza economica verso radicalizzazioni dovrebbe preoccupare, non sollazzare. Per questo il voto tedesco è un buon voto: evita il rischio, distribuendosi fra moderati con diverse sensibilità. Ora tocca alla politica ritrovare il filo del discorso.
Si è impostata la transizione energetica. C’è una scelta politica cui le forze politiche si sottraggono: la si fa statalizzando vieppiù o dandosi regole che spingano il mercato verso la diversa produzione di energia? Che gli elettori tedeschi non abbiano risposto, come non risponderebbero quelli italiani o francesi, deriva dal fatto che nessuno ha posto loro la domanda. E non è stata posta perché la politica si trincera dietro parole vuote, come “transizione”, “ambiente o “ecologia”, annebbiandosi circa il modello cui puntare. E s’annebbiano anche perché, come per la difesa o l’immigrazione, non è più materia solo nazionale. Per questa roba servono Falken veri, con la vista lunga e la consapevolezza che la sovranità è difendibile se europea. È ora che quelle uova si schiudano, che le vecchie si son rotte.