A chi conosce un po’ di storia d’Italia e vede la piega che sta prendendo il governo Meloni vengono subito alla mente due confronti, due ricordi, pur sapendo bene che il primo non piacerà molto all’attuale presidente del Consiglio. È il confronto con il governo che costituì Mussolini all’indomani della marcia su Roma, e con quello che costituì De Gasperi dopo la vittoria del 18 aprile. Nel novembre del 1922 il futuro duce si guardò bene dall’assegnare il ministero della Guerra ad Amerigo Dumini o a qualche altro scherano dello squadrismo: lo diede invece al maresciallo Diaz; tanto meno si rivolse a Roberto Farinacci per il ministero dell’Istruzione: chiamò Giovanni Gentile.
Ancor più e meglio De Gasperi, il quale, pur disponendo nel ’48 di una maggioranza assoluta in Parlamento non chiese a don Sturzo di fare il presidente della Repubblica. Lo chiese al liberale Luigi Einaudi, e allo stesso modo non diede lo strategico ministero degli Esteri a Dossetti o a un suo fedelissimo, lo diede al repubblicano Sforza. Ora, sia Mussolini che De Gasperi avevano, benché su scala maggiore, lo stesso problema cha si è presentato a Meloni. Entrambi i loro governi rappresentavano due fratture di portata drammatica rispetto al corso precedente della storia del Paese, due veri e propri terremoti politici carichi di un forte significato anche simbolico. Nel primo caso era la fine dell’Italia liberale, nel secondo la fine della conventi o ad excludendum dei cattolici dalla direzione dello Stato, che risaliva al Risorgimento. Ebbene, sia Mussolini che De Gasperi capirono che era loro interesse, proprio perciò, formare due esecutivi e addirittura scegliere un capo dello Stato che grazie ad una oculata scelta di nomi, cercassero di attutire quanto più possibile, agli occhi del Paese prima che a quelli dei loro avversari, la portata della rottura di cui sopra.
Capirono cioè che era un loro interesse mostrarsi, come si dice, inclusivi, scegliendo di essere affiancati da persone non appartenenti alla propria parte anche se naturalmente non ostili. E sicuramente lo fecero, si badi, non già per una qualche forma di debolezza o di sfiducia nelle proprie capacità. Al contrario: perché non solo si sentivano sicuri del fatto loro ma perché ognuno di essi intendeva che il proprio governo rappresentasse una vera rottura e l’apertura di una fase politica davvero nuova e destinata a durare, come in effetti fu. Immagino che una eguale ambizione abbia tuttora anche la nostra attuale presidente del Consiglio. Si dà il caso però che il risultato elettorale le abbia consegnato la guida di una coalizione nella quale il principale interesse dei suoi alleati è quello di renderle la vita difficile, mettendo ogni giorno potenzialmente in crisi il suo governo. Ne risulta che un obiettivo più che mai vitale di Giorgia Meloni non possa che essere quello di accrescere al massimo il proprio bottino di voti alla prossima occasione elettorale. Magari a spese dei suddetti alleati, ma ben più plausibilmente andando a pescare nel grande bacino costituito dagli italiani i quali la volta scorsa non le hanno dato il voto, o non hanno votato o hanno disperso il proprio voto parcheggiandolo da qualche parte. E cioè nell’elettorato definibile genericamente moderato o centrista che dir si voglia, il quale prima di darle il suo consenso ha voluto però vederla all’opera.
A Giorgia Meloni doveva essere evidente, insomma, che il suo interesse, una volta divenuta presidente del Consiglio, era quello di aprire al centro, come si dice. Che solo da lì poteva venirle la forza per consolidare la sua leadership realizzando il disegno di dar vita a una grande forza liberal-conservatrice, così da rimodellare il sistema politico italiano dando inizio a una fase davvero nuova della sua storia. Viceversa la presidente del Consiglio, lungi dal battere questa strada ha preso quella opposta. A cominciare dalla composizione del governo, infatti, invece di cercare di dare a questo un respiro nazionale, invece di aprire nelle molte nomine successive a chi rappresentava mondi e culture diverse dalle sue, invece di mostrarsi capace di ricercare e di accogliere nella propria compagine qualche significativa eccellenza del Paese disposta a collaborare con il suo tentativo, Giorgia Meloni si è rinchiusa in una sorta di «ridotto della Valtellina» identitario o, se si preferisce evitare infelici memorie, in una sorta di quadrato di Villafranca costituito da compagni quasi di scuola, da fedelissimi della prim’ora, da vecchi militanti amici, da congiunti e parenti stretti: che tutti quindi le devono tutto.
Il carattere schietto della presidente, abituata al parlare franco, non se la prenderà se le diciamo che non è così, però, che si costruisce una leadership autorevole. Non è così che si entra in sintonia con la maggioranza effettiva del Paese e se ne diventa la guida, non è così che si attua una grande svolta politica, e soprattutto non è così che si ottengono buoni risultati di governo. In politica la fedeltà a tutta prova può servire nel momento aspro dello scontro; ma quando invece si tratta di decidere, di organizzare e di agire nell’interesse della collettività, allora serve altro. Servono le competenze, le idee, l’immagine pubblica, le relazioni, le capacità. Serve l’impegno sincero a far parte di una squadra, di un governo appunto: che è cosa diversa da una schiera di pretoriani.