La sentenza cancella un’accusa, ma ingigantisce un problema collettivo: la vita della Repubblica non è stata inquinata dalla trattativa fra Stato e mafia, che non ci fu, ma dall’inchiesta sull’inesistente trattativa fra lo Stato e la mafia. Una storia, falsa, raccontata talmente tante volte da essersi piantata nella memoria collettiva. Una storia, ed è questo l’aspetto ancora più inquietante, che nella sua prepotenza infondata ha coperto d’oblio quel che ancora deve essere chiarito, quel che alla mafia fu regalato, quel che ancora deve essere raccontato.
La sentenza d’appello non è definiva, vedremo se la procura vorrà appellarla, chiedendo il vaglio della Corte di cassazione. Ma già pima di quest’ultimo passaggio era divenuta definitiva l’assoluzione di Calogero Mannino, per i medesimi fatti. L’ex ministro aveva chiesto il rito abbreviato, aveva attraversato un lunghissimo calvario giudiziario e, alla fine, era stato definitivamente assolto. La sentenza di ieri conferma quella lettura dei fatti.
Le persone coinvolte sono diverse e ciascuno di loro merita una personale ricostruzione e reintegrazione dell’onorabilità. Ma questa faccenda non è stata solo la loro devastazione, perché ha demolito parte stessa della nostra storia e della nostra onorabilità collettiva.
Per questo scelgo di concentrarmi su uno solo degli imputati, che con la sua personale storia testimonia un problema che non si chiude affatto e anzi si apre: Mario Mori. Carabiniere, a capo del Ros (Raggruppamento operativo speciale). Accusato d’essersi messo al servizio dei mafiosi. Ha passato lunghissimi anni sul banco degli imputati e non ha ancora finito, perché, appunto, la sentenza potrebbe essere appellata.
È la sua posizione a porre il problema, perché Mori e il Ros lavorarono con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due magistrati che furono ferocemente avversati dalla corporazione togata, dalle correnti politicizzate della magistratura e da gran parte della politica che poi volle assegnarsi l’esclusiva dell’anti mafiosità. Gli stessi che poi ipocritamente li celebrarono. Furono isolati, ridotti all’impotenza, infine ammazzati. Oltre tutto questo, erano anche dei fessi, degli incapaci o peggio, visto che si fidavano di Mori?
Falcone impostò, con il Ros, l’inchiesta “mafia appalti”. Fecero di tutto per fermarlo, fino a costringerlo ad abbandonare il lavoro a Palermo e trasferirsi a Roma. Ma era tenace, Falcone, e non mollava. Finché saltò in aria. Borsellino capì il segnale e chiese di occuparsi lui di quell’inchiesta. Gli fu impedito dall’allora capo della procura di Palermo.
Quel veto venne rimosso poche ore prima che anche lui saltasse in aria. E, questo è il punto atroce, questo il fatto da chiarire, non si erano ancora posate le polveri di Via D’Amelio che la procura di Palermo smembrò e seppellì l’inchiesta “mafia appalti”. Ma c’erano ancora i Carabinieri, c’era il braccio destro di Borsellino, anche lui carabiniere, Carmelo Canale, cognato di un altro carabiniere, Antonino Lombardo, diffamato in diretta televisiva alla vigilia di un importante viaggio investigativo negli Stati Uniti. Lombardo si suicidò. Gli altri finirono tutti imputati per mafia. Tutti. E tutti assolti. Questa non è la storia di un errore giudiziario, ma di un disegno. Un disegno che servì a cancellare un’inchiesta impostata da Falcone.
Non ho mai pensato, in tutti questi anni, scrivendolo e dicendolo, che ci sia stata una trattativa, ma se ci fu la fecero altri, non gli imputati ora assolti. E in quella la sepoltura dell’inchiesta, il depistaggio, ebbe un ruolo, così come la scarcerazione di boss mafiosi, alla fine varata da un confuso e stordito ministro della giustizia (Conso), che seguì le indicazioni del capo dei cappellani penitenziari (Curioni), con legami che arrivarono al Quirinale.
La sentenza di ieri non chiude un processo, ma apre una questione ineludibile. Prima che il falso si sedimenti nel mendace racconto della nostra storia.
La Ragione