La democrazia è forma, protocollo, procedura. Ma la democrazia italiana è una creatura informe. Sfregiate da prassi truffaldine, da scelte che fingono il rispetto delle regole e invece le aggirano, v’usano violenza. Noi, per lo più, non ci facciamo caso. Andiamo dritto al sodo, magari litighiamo sui contenuti di questa o quella legge, disinteressandoci del suo abito esteriore, del metodo con cui è stata generata. È un errore, anzi un inganno. La corruzione delle forme precede quella dei costumi. La rottura delle garanzie formali genera sempre una lesione sostanziale dei nostri diritti. Le prove? A osservare l’esperienza più recente, si contano almeno quattro casi.
Primo: il referendum costituzionale. Svilito dalla contemporaneità con le amministrative, dato che il governo ha deciso d’abbinare le due consultazioni. Sicché in settembre, nello stesso seggio elettorale, verrà scelto il nuovo governatore della Puglia, il sindaco di Voghera o di Milano, e insieme l’assetto permanente della Repubblica italiana. Non va bene, non va affatto bene. Perché in questa vigilia ci sarà spazio soltanto per la campagna elettorale di partiti e candidati. Perché l’election day finirà per provocare un’alterazione territoriale nell’afflusso dei votanti (più basso dove manca un’elezione locale). Perché imprime un sapore plebiscitario al referendum. Perché infine calpesta la libertà degli elettori. Non a caso l’abbinamento è vietato dalla legge rispetto ai referendum abrogativi. E non a caso la Costituzione non ha previsto alcun quorum di partecipazione per la validità del referendum costituzionale. I nostri padri fondatori volevano che gli elettori fossero pienamente consapevoli, liberi di scegliere. I loro pronipoti, viceversa, ci hanno apparecchiato un piatto di cavoli e cavalli: mangiare o digiunare.
Secondo: i famosi (o famigerati) dpcm. Quelli che ci hanno rinchiuso dentro casa, comprimendo un po’ tutte le libertà costituzionali. Misure necessarie, come no; ma il problema sta nella riserva di legge, con cui la Carta del 1947 protegge le nostre libertà. Quindi un decreto legge può restringerle, un decreto individuale del premier invece non può farlo, anche perché scavalca del tutto il Parlamento. Per aggirare l’ostacolo, il decreto legge n. 6 del 2020 ha usato un trucchetto da prestigiatore: una delega in bianco all’uso dei dpcm, senza delimitarne affatto i contenuti. Così violando il principio di legalità “sostanziale”, anzi di legalità tout court. E forgiando un precedente che in futuro può autorizzare nuovi e più gravi abusi.
Terzo: i decreti legge approvati in Consiglio dei ministri “salvo intese”. Escamotage inaugurato dai governi Berlusconi, che nei governi Conte (1 e 2) ha generato un’abitudine, una pratica normale. Serve per dare in pasto all’opinione pubblica il miraggio d’una decisione, quando in realtà non si è deciso un piffero. I ministri approvano il titolo d’un film, senza però vedere la pellicola. Del resto all’epoca del governo Renzi votavano sulle slide, evidentemente una nuova fonte del diritto. Così l’autorità di ogni ministro si degrada, ogni voto diventa una finzione. E infatti il decreto Agosto è stato pubblicato con 24 articoli in più, usciti come Minerva dalla testa di Giove. Per rispettare le forme (e la sostanza) sarebbe stata necessaria una nuova delibera del Consiglio, ha osservato Salvatore Sfrecola, e con lui molti giuristi. Ma lavorare stanca, specie poi d’estate.
Quarto: il lago di norme varate per decreto. «Le caratteristiche distintive della legge sono la generalità e la durata illimitata», stabiliva la Costituzione girondina del 1793. Il nostro ordinamento, viceversa, è intasato da regole minute, e giocoforza effimere come farfalle. Succede per l’incapacità di fare sintesi, per la fragilità della politica. Spezzando così il pane in mille briciole, che non tolgono la fame. Tolgono però alla legge la sua forma, la sua stessa dignità.
Michele Ainis
La Repubblica, 22/08/20
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