Natale è Natale, non è la “festività di fine anno”. Molti anni prima che a qualcuno venisse la bislacca idea di assegnare a una ricorrenza il malevolo significato di volere discriminare quanti non vi si riconoscono, molto tempo prima che il politicamente sciocco pretendesse i panni del corretto, i cultori della festività religiosa lamentavano la sua desacralizzazione e la sua riduzione a festa dei consumi e dei regali. Agli uni e agli altri vada un mesto pensiero.
Due cose, però, sono giunte a ricordarci che il problema non è archiviato. Due cose accadute in due diversi e lontani palazzi istituzionali. Il presidente francese ha invitato all’Eliseo il rabbino capo di Francia perché colà accendesse la prima luce di Hanukkah, festività ebraica che ricorda la riconsacrazione del Tempio nel II secolo avanti Cristo (taluni pretendono non si scriva neanche «avanti Cristo», discriminatorio). Considerata la stagione che viviamo e il riemergere del ripugnante antisemitismo, ha fatto bene. Hanukkah non è il “Natale ebraico”, ma non è privo di significato che, nel tempo, le principali festività religiose tendono a convergere nei calendari, così come fece il Natale cristiano con le ricorrenze dell’impero romano e pagano. Non di meno ne è nata una polemica, perché in Francia la laicità è consustanziale alla Repubblica e quella luce è stata accesa nel palazzo presidenziale.
A Monfalcone c’è il problema opposto: i musulmani non hanno un luogo dove riunirsi e pregare, non c’è una moschea. Lo hanno fatto all’aperto e sono stati raggiunti da una ordinanza municipale che lo proibisce. Liberi di pregare, ma lo facciano a casa propria, ciascuno per i fatti propri. Significativo che a protestare siano stati non solo i diretti interessati, ma anche i parroci delle vicinanze. Le comunità di fede sono poco frequentate e il problema che avvertono è che siano libere ma anche che attirino i fedeli, non le ordinanze. Da noi la questione dovrebbe essere stata risolta dalla Carta che diede i natali alla Repubblica, che impone di non discriminare per fedi (art. 3) e stabilisce la libertà di culto (art. 19). Ma nulla si risolve una volta per tutte e certe questioni tornano a gola. Lo Stato laico è una conquista della nostra civiltà occidentale e, per noi italiani, una acquisizione assai sofferta, che diede i natali all’Unità stessa d’Italia (Roma divenne capitale anni dopo perché il pontefice la considerava sua e, per ‘liberarla’, si dovette mandare l’esercito). Quei due articoli della Costituzione non sono una graziosa concessione agli ‘altri’, ma una potente affermazione della nostra identità. Violarli o relativizzarli non serve a combattere altre fedi, serve a distruggere noi stessi. Ditegli di smettere.
La laicità non è la cancellazione delle fedi e dei culti, ma la loro convivenza. Il che richiede una impegnativa crescita culturale, perché non subordina la fede ad alcunché ma subordina il culto e i riti al rispetto della legge. Posso pure affiliarmi a un culto che evoca sacrifici umani, ma se provo a praticarli mi mettono – giustamente – in galera. Facciamo un esempio più scomodo: si può ben stabilire che in un culto il sacerdozio sia esclusivamente maschile, ma non si può mai farne discendere, fuori dal rito, una violazione della parità senza distinzione di genere. Lo Stato laico non regola il culto, ma il culto non può negare la laicità dello Stato. Un equilibrio delicato, che può essere messo in pericolo dall’arrivo di genti che non ne hanno vissuto la sostanza fin dalla nascita, meno secolarizzate. Un equilibrio che però non si difende negando quella loro differenza, bensì chiarendo che la legge qui prevale proprio perché non nega. Ecco perché leggi e ordinanze che negassero non sarebbero contro di ‘loro’, ma contro di noi.
Quanti sostengono che non si debba dire “Natale”, in nome della inclusività e del rispetto, non sono la punta avanzata della laicità: sono gli avanzi di un fondamentalismo che ha smarrito i fondamentali.
La Ragione