I russi prenderanno il Donbass. È assai meno di quel che, lo scorso 24 febbraio, pensavano di potere avere. Assai meno in assai più tempo. Con un numero spaventoso di morti, anche fra le fila russe. Se, entro il 9 maggio, Putin non riuscisse ad avere neanche il Donbass sarebbe una disfatta. Averlo, però, non sarà una vittoria. La guerra che i russi hanno voluto è comunque, per loro, persa. Questo significa che i tempi saranno lunghi e impongono di chiarire cosa s’intende per negoziato, cosa si può negoziare. I negoziofili a prescindere non sono in grado di distinguere una resa da un tradimento.
La pace non è e non sarà mai l’assenza di conflitti, la pace è non affidare alle armi la pretesa di prevalere. La pace è stata cancellata da Putin. Ergo i pacifisti indirizzino al Cremlino i loro canti. Se l’aggressore infrange la pace l’aggredito non la preserva arrendendosi, perché quella sarebbe la pace dei cimiteri, con il primo funerale alla libertà e alla sicurezza. Cedere alla violenza non è salvare la pace, ma far vincere la guerra a chi ha torto. Quindi gli ucraini combattono e noi siamo al loro fianco. E ci restiamo non per spirito umanitario, ma per convenienza e opportunità: abbandonarli sarebbe abbandonarci.
Quando Putin avrà il Donbass dovrà poi tenerlo, il che significa una guerra lunga e a minore intensità. Ma pur sempre guerra. Per tenerlo senza lasciarci più morti dei giovani russi sacrificabili dovrà allargarsi, il che comporterà guerra meno veloce. Ma pur sempre guerra. Cosa si può negoziare, in quel tempo? I teorici dello sbraco dicono: si prenda quelle terre e facciamola finita. No. No per principio e no perché non sarebbe finita. No perché se le ottiene punterà oltre. Se non lo farà lui lo faranno altri al suo posto. No perché un cedimento di quel tipo creerebbe un incandescente fronte interno di resistenza, il che assicurerebbe guerra e terrorismo per l’avvenire. Senza contare che l’aggressione fertilizza i nazionalismi, quello ucraino compreso. Il che rende il negoziato sempre meno credibile.
Il papato invoca la pace e condanna le armi. Fa bene. Resta da stabilirsi, stando alle parole di Bergoglio, perché se qualcuno m’offende la madre gli posso mollare un pugno, mentre se me la violenta o ammazza gli debba proporre un negoziato. E non di meno ha ragione, si deve provare a negoziare. Potrebbe cominciare a farlo con Kirill. E che il datore di lavoro li assista. Negoziare, ma cosa?
Si può negoziare la neutralità dell’Ucraina, che non è molto diverso da quel che c’era anche prima. Si può negoziare il disarmo in fasce di rispetto e sicurezza, ma questo dovrebbe valere da una parte e dall’altra. L’autonomia amministrativa delle regioni al confine. L’agibilità condivisa dei porti della Crimea. La presenza di una forza d’interposizione e garanzia. Questo comporta due cose.
La prima è che la Russia si pieghi a negoziare, laddove lo ha fin qui escluso. Impossibile negoziare se una delle parti lo rifiuta. Per piegarla sono utili le misure che sono state adottate di embargo e strangolamento finanziario, talché o soffoca o si vende alla Cina (e auguri ai nazionalisti, che troveranno colleghi tali da far rimpiangere loro i modi occidentali). Questi sono gli strumenti per negoziare senza divenire belligeranti, tanto che sarebbe logico attendersi i negoziofili reclamino misure d’embargo assai più severe. Deve essermi sfuggito, ma mi pareva il contrario, a dimostrazione che non sono persone serie e stanno solo ingannando i quattro beoti che credono loro.
La seconda è che esista ancora l’Ucraina, il che comporta il diritto a difendersi, riconosciuto anche da Bergoglio. E non ci difende a chiacchiere, ma con la forza, con le armi. Chi vuole potere negoziare deve aiutare l’Ucraina a resistere.
Fuori da questo ci sono quanti stanno dalla parte di Putin, per vocazione o a tassametro. Il fatto che premettano non sia vero dimostra solo che se ne vergognano. E su questo non so proprio dare loro torto.
La Ragione