A ogni assassinio di Stato, la protesta si alimenta. Il regime in difficoltà. Ma la discesa in campo del figlio dello Scià complica l’intesa fra le opposizioni
A Javānrūd una ragazza curda senza l’hijab è in piedi davanti alle forze basij durante la cerimonia del quarantesimo giorno di fine del lutto per la morte di sette martiri che in questa città hanno preso parte alla rivoluzione scoppiata in Iran quasi quattro mesi fa. Gridano slogan contro Alì Khamenei e maledicono Ruhollah Khomeini: “Morte al Velayat-e Motlaqe Fagih” (morte alla tutela della guida suprema sulla vita sociale e politica). In questo slogan è racchiuso tutto il significato della pacifica rivoluzione scoppiata il 16 settembre 2022 dopo l’assassinio della ventiduenne Mahsa Amini, curda di Saqqez, avvenuta dopo che era stata massacrata di botte in un furgone della cosiddetta “polizia morale” che tre giorni prima l’aveva arrestata perché non indossava il velo come prescrive la legge islamica.
Le manifestazioni di protesta contro questa barbara uccisione, partite dalle città curde dell’Iran, si sono subito estese in tutto il paese, compresa la provincia a maggioranza sunnita del Belūcistān, fino a sfociare in una vera e propria rivoluzione che ora vede queste due regioni ancora come traino della battaglia per il rovesciamento della Repubblica islamica.
Questo elemento costituisce un aspetto molto significativo che non va ignorato. Gridare “Morte al Velayat-e Motlaqe Fagih” ha un doppio significato. Non è solo l’espressione del rifiuto della massima autorità religiosa del paese e dell’oppressione della religione nella vita sociale e politica di un popolo, ma esprime il rifiuto di ogni autoritarismo. Esprime la rivendicazione di una piena democrazia laica rispettosa dei diritti di ogni persona e di ogni minoranza.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che è nel Sīstān-Belūcistān e nel Kurdistan iraniano che la rivoluzione per la liberazione dell’Iran dal regime teocratico, guidata dalla cosiddetta “generazione Z”, sia un passo avanti rispetto al resto del paese. In queste regioni è l’intero popolo, sempre a mani nude, ad essere insorto contro la Repubblica islamica. Alcuni centri delle province curde come quelli di Javānrūd, Sanandaj, Bukan, Mahabad, nel Kurdistan iraniano, sono di fatto in mano agli insorti e la situazione è drammatica.
Mentre nella megalopoli di Teheran, così come a Esfahan, a Karaj e a Mashad, le proteste non sono estese e costanti, e i manifestanti non hanno per nulla il controllo delle strade e delle piazze, il fuoco della rivoluzione è tenuto vivo dai curdi e dai beluci. Non è un caso se sono le città curde e quelle del Belūcistān a pagare il prezzo più elevato della feroce repressione. Buona parte dei cittadini arrestati, torturati e uccisi dalle forze paramilitari pasdaran sono appunto curdi o della minoranza beluci, così come la maggior parte dei condannati a morte.
A Javānrūd le guardie rivoluzionarie hanno trasferito migliaia di loro uomini equipaggiati con armi da guerra e hanno arruolato numerose milizie straniere filoiraniane da loro addestrate. Si tratta di milizie sciite provenienti da Iraq, Siria, Libano e dall’Afghanistan. Attaccano le abitazioni dei civili, irrompono nelle loro case e portano via intere famiglie.
A Mahabad si è celebrato il quarantesimo giorno trascorso dall’assassinio di Shamal Kahramaneh al grido di “Javānrūd non è sola, Mahabad è la sua sostenitrice”.
Cerimonia funebre anche per Mehran Basir, un giovane di 29 anni ucciso a Foman il 24 novembre. Il 31 dicembre si è svolta la cerimonia del quarantesimo giorno anche per Mehdi Kabuli, un adolescente di 15 anni ucciso dagli agenti di sicurezza a Gorgan. Il 5 gennaio a Izeh si terrà la cerimonia funebre per il quarantesimo giorno dall’assassinio di Hamed Selahshur, di 22 anni, torturato in prigione fino alla morte. Il giovane Hamed era stato segretamente sepolto fuori città perché la sua famiglia temeva che le autorità sequestrassero il suo corpo per estorcere una confessione forzata, ora lo hanno riesumato per seppellirlo nel “cimitero di famiglia” a Izeh.
Come è noto il regime sequestra i corpi dei manifestanti uccisi e chiede ai familiari una sorta di riscatto per la loro restituzione e precisamente chiede una confessione pubblica che smentica la voce di un loro decesso per mano dello stato. La Repubblica islamica ha paura anche dei morti e dei loro funerali perché le cerimonie funebri si trasformano in imponenti manifestazioni. Insomma, il regime teocratico ha comportamenti e organizzazione di tipo mafioso.
La rivoluzione sembra inarrestabile, ogni funerale produce una manifestazione a cui partecipa un oceano di persone e ciò fa desistere il regime dall’infliggere nuove impiccagioni. Le autorità iraniane pensavano di soffocare le rivolte con l’arma del terrore, ma ciò non sta riuscendo perché ad ogni assassinio la risposta è una ulteriore crescita della ribellione. Crescono la rabbia e l’indignazione, cresce l’odio verso questo orribile regime sanguinario considerato semplicemente criminale e del tutto privo di legittimità, dunque destinato ad essere spazzato via.
Intanto, sabato 31 dicembre 2022, diverse personalità di spicco in esilio che si oppongono alla Repubblica islamica hanno pubblicato una dichiarazione congiunta sui loro social definendo l’anno 2023 come quello della liberazione dell’Iran. “Il 2022 è stato l’anno glorioso della solidarietà degli iraniani di ogni credo, lingua e orientamento. Con lo stesso impegno e solidarietà, il 2023 sarà l’anno della vittoria per la nazione iraniana”, si legge nella dichiarazione firmata dal principe Reza Ciro Pahlavi, dalle attrici Nazanin Boniadi e Golshifteh Farahani, dall’attivista per i diritti umani e giornalista Masih Alinejad, da Hamed Esmaeilion, portavoce dell’Associazione delle famiglie delle vittime del volo PS752 abbattuto dai pasdaran esattamente tre anni fa (l’8 gennaio 2020) e dall’ex calciatore Ali Karimi. Il principe Reza Pahlavi in risposta alle critiche di coloro che sostengono che non vi è una voce unitaria contro il regime, ha detto: “Ecco perché dobbiamo unirci affinché le forze pro-democrazia aprano il dialogo con il mondo”.
E Nazanin Boniadi a “Iran International” ha sottolineato i continui tentativi con vari gruppi di opposizione per lavorare uniti e formare una coalizione.
Questa dichiarazione che invita le forze pro-democrazia a formare una coalizione non è stata sottoscritta da alcun esponente di partiti politici come quelli curdi, repubblicani o radicali. C’è solo un personaggio politico ad aver firmato questa dichiarazione, ed è il principe Reza Pahlavi, un personaggio carismatico a cui i repubblicani e i curdi guardano con sospetto perché non valutano positivamente la passata esperienza monarchica. Questo metodo di escludere alcune componenti fondamentali della società e della politica iraniana attive nella pacifica rivoluzione in corso ricorda quello seguito nel 1979, quando la speranza di una rivoluzione democratica per liberare il paese dall’oppressivo regime monarchico dei Pahlavi, fu vanificata e il moto rivoluzionario fu egemonizzato da una personalità religiosa fondamentalista carismatica come quella di Khomeini.
Per questo incomincia a serpeggiare, in particolare nella comunità curda, preoccupazione per il tentativo di alcuni esponenti della borghesia persiana in esilio, in particolare residente negli Stati Uniti e in Europa, di monopolizzare la rivoluzione ignorando partiti, minoranze e le entità non persiane presenti nel paese che rappresentano la componente più attiva e agguerrita di questo spontaneo movimento rivoluzionario partito dal basso.
Si teme quindi che all’interno della diaspora iraniana vi sia un tentativo di favorire la discesa in campo del principe Reza Pahlavi ritenuto forse in grado di risvegliare il sentimento nazionalista e di una Grande Persia che sia in grado di riscattarsi da quarantaquattro anni di disonore e di oscurantismo rappresentato dal regime teocratico.
Davanti a un movimento rivoluzionario senza leader, per una componente molto influente della borghesia iraniana in esilio, puntare sul nazionalismo persiano e sulla figura del principe Reza Pahlavi potrebbe rappresentare la strada più veloce e sicura per il cambio di regime. Ma i curdi, perseguitati da sempre sotto ogni dittatura, non vogliono essere servitori di nessuno: non intendono morire per un “Re persiano”, questo è il messaggio che arriva dal Kurdistan che vede la dichiarazione di un principe, di due attrici e di un giocatore di calcio, come un tentativo di scippare la rivoluzione e di presentare Reza Ciro Pahlavi, che per i monarchici è ancora il pretendente al trono, come il suo capo politico forte anche del sostegno che riceve grazie ai canali televisivi finanziati dai sauditi e che hanno sede a Londra.
Anche se il principe dichiara di non avere alcuna intenzione di ritornare sul trono, per il suo entourage e per il partito monarchico è pur sempre “Reza II” e dunque si preme fortemente per un ritorno della dinastia dei Pahlavi.
Ma gli slogan che si odono nelle piazze e nelle strade di tutte le città del paese, da Teheran a Sanandaj e da Esfahan a Zahedan e che gridano “Curdi, beluci, azeri; libertà e uguaglianza”, fanno intendere che per la “generazione Z” sono maturi i tempi affinché tutte le componenti etniche e religiose come quelle del Kurdistan e del Belūcistān, che da circa quattro mesi stanno dando un contributo fondamentale alla rivoluzione, dovrebbero avere un pieno riconoscimento e una piena collocazione di un assetto statuale consistente in una democrazia laica con una forte impronta federalistica.